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Nathaniel lo guardò, con i suoi grandi occhi fondi e umidi, con il muso raggrinzito dalla preoccupazione.

«Io non capisco,» disse, in un tono lamentoso che era quasi un guaito, «Tu usi delle parole che non riesco a capire.»

«Ascolta, Nathaniel. Forse gli uomini non saranno sempre come sono oggi. Forse gli uomini cambieranno. E, se così sarà, voi cani dovrete andare avanti; dovrete prendere il sogno dalle nostre mani e tenerlo in vita e farlo andare avanti. Dovrete fingere di essere degli uomini.»

«Noi cani,» promise Nathaniel, obbediente, «Lo faremo.»

«Il momento non verrà che tra migliaia e migliaia di anni,» disse Grant. «Voi avrete il tempo di prepararvi. Ma dovete sapere. Dovete diffondere la parola. Non dovete, non potete dimenticare.»

«Io lo so, adesso,» disse Nathaniel. «E noi cani lo diremo ai cuccioli, e i cuccioli lo diranno ai loro cuccioli.»

«È proprio così,» disse Grant.

Si chinò a grattare Nathaniel dietro l’orecchio, e il cane, dimenando la coda sempre più lentamente, fino a fermarsi del tutto, rimase laggiù, sul fondo della valle, a guardare l’uomo che saliva lentamente il fianco della collina.

ANNOTAZIONI SUL QUARTO RACCONTO

Di tutte le storie che compongono la leggenda, questa ha maggiormente confuso e sconcertato coloro che hanno voluto cercare nell’opera qualche spiegazione razionale e qualche significato reale.

Che la storia in questione sia completamente mitica, senza ombra di verità o di realtà storica, perfino Stecco è arrivato ad ammetterlo. Ma se si tratta di un mito, che cosa significa? Se questa storia è un mito, anche tutte le altre della leggenda non possono essere ugualmente mitiche?

Giove, teatro dell’azione di questa storia, dovrebbe essere uno degli altri mondi che si possono trovare attraverso lo spazio. L’impossibilità scientifica dell’esistenza di simili mondi è già stata rilevata in precedenza. E, se dobbiamo accettare l’ipotesi di Salta, secondo il quale gli altri mondi di cui si occupa la leggenda altro non sono che i nostri stessi mondi multipli, appare ragionevole supporre che un mondo come quello descritto avrebbe già dovuto essere localizzato da molto tempo, ormai. Che alcuni mondi delle ombre siano chiusi e insondabili è, naturalmente, noto a chiunque, ma il motivo per cui essi sono chiusi è ben noto e nessuno di essi è chiuso per l’esistenza di condizioni simili, in misura maggiore o minore, a quelle descritte nel quarto racconto.

Alcuni studiosi ritengono che il quarto racconto sia estraneo alla leggenda, sia stato inserito arbitrariamente in altre epoche e nulla abbia a che fare con l’opera nella sua integrità, e che si tratti di un elemento già esistente nella sua forma attuale, e incorporato nell’opera integralmente. È difficile accettare questa conclusione, poiché la storia si inserisce perfettamente nella leggenda, fornendo anzi uno dei principali cardini narrativi intorno ai quali ruota l’intera opera.

Il personaggio di Towser, che appare in questa storia, è stato più volte citato come esempio di contrasto con la fondamentale dignità della nostra razza.

Eppure, benché Towser possa non essere gradito a certi lettori troppo schizzinosi, egli serve bene come guida per l’umano di questa storia. È Towser, non l’umano, che per primo appare pronto ad accettare la situazione che si presenta; è Towser, non l’umano, il primo a comprendere. E la mente di Towser, non appena liberata dalla dominazione umana, è mostrata come uguale, se non superiore, a quella dell’umano.

Towser, per quanto possa essere perseguitato dalle pulci, è un personaggio del quale nessun Cane si deve vergognare.

Malgrado la sua brevità, il quarto racconto è probabilmente il più soddisfacente degli otto che compongono la leggenda. È una storia che si raccomanda automaticamente per una lettura attenta e meditata.

IV

DISERZIONE

Quattro uomini, due per volta, erano usciti nell’ululante maelstrom che era Giove, e non era ritornati. Avevano camminato sfidando i venti d’uragano che soffiavano lamentosi… o meglio, erano andati avanti a lunghi balzi, con il ventre a terra, e i fianchi bagnati e lucidi della pioggia battente.

Perché i quattro non erano usciti in forma di uomini.

Ora il quinto uomo era in piedi davanti alla scrivania di Kent Fowler, comandante della Cupola Numero 3, Commissione per l’Esplorazione di Giove.

Sotto la scrivania di Fowler, il vecchio Towser mosse una zampa e schiacciò una pulce fastidiosa, e poi si accucciò di nuovo, riprendendo placidamente a dormire.

Harold Allen, notò Fowler con un’improvvisa fitta di dolore al cuore, era giovane… troppo giovane. Aveva la fiducia scontata dei giovani, e il viso di uno che non conosce la paura. E questo era strano. Perché gli uomini che vivevano nelle cupole di Giove conoscevano la paura… la paura e l’umiltà. Era difficile per l’Uomo conciliare il suo spirito fiero e presuntuoso con le immense forze del mostruoso, gigantesco pianeta.

«Lei si renderà conto,» disse Fowler, «Di non essere costretto a fare questo. Lei si renderà conto di non essere costretto ad andare.»

Era una formula protocollare, naturalmente. Le stesse parole erano state dette agli altri quattro, e loro erano andati. E questo quinto uomo, Fowler lo sapeva bene, sarebbe andato a sua volta. Ma d’un tratto sentì nascere dentro di lui una lenta, irragionevole speranza, la speranza che Allen non avesse accettato, la speranza che Allen non fosse andato fuori.

«Quando devo cominciare?» domandò Allen.

C’era stato un tempo in cui Fowler avrebbe ascoltato quella risposta con silenzioso orgoglio, ma quel tempo era passato. Per un istante il suo viso si oscurò, una ruga di ansietà apparve sulla sua fronte.

«Entro un’ora,» rispose.

Allen rimase in piedi, in silenzio, rigido sull’attenti.

«Altri quattro uomini sono usciti e non sono più tornati,» disse Fowler. «Naturalmente lei è al corrente. Noi vogliamo che lei torni. Non desideriamo che lei si impegni in qualche eroica missione di soccorso. La cosa più importante, l’unica cosa importante, è che lei torni indietro, che lei dimostri al di là di ogni dubbio che l’uomo può vivere in una forma gioviana. Si spinga fino alla prima postazione di osservazione, non oltre, e torni subito indietro. Non corra rischi. Non cerchi di compiere delle ricerche personali. Ricordi che lei deve soltanto tornare indietro.»

Allen annuì.

«Me ne rendo perfettamente conto.»

«La signorina Stanley sarà ai comandi del convertitore,» continuò Fowler. «Su questo punto lei non deve avere la minima preoccupazione. La conversione, anche negli altri quattro casi, è stata operata senza alcun inconveniente. I suoi quattro predecessori hanno lasciato il convertitore in condizioni apparentemente perfette. Lei sarà affidato a mani la cui competenza è al di là di ogni dubbio. La signorina Stanley è l’operatrice di conversione più capace e specializzata che esista in tutto il Sistema Solare. Le sue esperienze comprendono lunghi periodi di lavoro su quasi tutti gli altri pianeti. È per questa sua grande esperienza e abilità che si trova qui con noi.»

Allen sorrise alla donna, e Fowler vide uno strano guizzo di espressione balenare sul viso della signorina Stanley… qualcosa che avrebbe potuto essere pietà, oppure collera… o soltanto paura, paura nuda ed elementare. Ma fu soltanto un guizzo, che scomparve in un istante, e subito la donna ricambiò il sorriso al giovane che stava in piedi, sull’attenti, davanti alla scrivania. Ricambiò il sorriso con quel suo modo di sorridere formale, da maestra di scuola, come se si odiasse per dovere sorridere così.

«Sono impaziente,» disse Allen, «Di sottopormi alla conversione.»

E dal modo in cui pronunciò queste parole la cosa parve uno scherzo, un grande scherzo buffo.

30
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