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«Babbo!»

Pa’ si agitò, inquieto.

«Babbo, per favore, spostati quando la falciatrice ti passa vicino. Non cercare di dimostrarti più cocciuto di lei. Dopotutto è soltanto una macchina. L’ultima volta sei rimasto seduto, e l’hai costretta a girarti intorno. Non capisco che gusto ci provi.»

Non rispose, mosse soltanto leggermente il capo, sperando che sua figlia pensasse che lui era addormentato, e lo lasciasse in pace.

«Papà.» gridò lei, «Mi hai sentito?»

Capì che non serviva a niente.

«Sicuro, sicuro, ti ho sentita,» brontolò. «Mi stavo proprio per alzare.»

Si alzò in piedi, lentamente, appoggiandosi pesantemente al bastone. Così si sarebbe pentita del modo in cui lo trattava, vedendo come era diventato vecchio e debole; però doveva fare attenzione. Se lei si fosse accorta che avrebbe potuto fare benissimo a meno del bastone, gli avrebbe subito trovato un’infinità di lavori da fare e, d’altro canto, se si appoggiava troppo al bastone Betty avrebbe mandato di nuovo ad affliggerlo quello stupido dottore.

Brontolando, spostò lo sdraio nella parte del prato sulla quale la falciatrice era già passata. La falciatrice, che stava ripassando, lo gratificò di un borbottio maligno.

«Un giorno o l’altro,» le disse Pa’, «Ci penserò io a spaccarti una molla.»

La falciatrice gli rispose con un ululato di scherno, e si allontanò serenamente per il prato.

Dalla strada erbosa giunse uno stridio metallico, giunse il rumore scoppiettante di un motore.

Pa’, che stava per sdraiarsi tranquillamente, si alzò e si mise in ascolto.

Il rumore si ripeté, più vicino e più chiaro; era il rumore ansante di un motore difettoso, era il rumore di pezzi metallici male in arnese.

«Un’automobile!» esclamò Pa.’ «Un’automobile, miseria ladra!»

Si mosse, fece per correre verso il cancello, ricordò appena in tempo di essere vecchio e debole — e che, probabilmente, sua figlia era ancora alla finestra — e avanzò a lunghi passi.

«Dev’essere quel pazzo di Ole Johnson,» si disse Pa’. «È l’unico che abbia ancora un’automobile. Miseria di un vecchio, è troppo cocciuto per rinunciarvi.»

Era proprio Ole.

Pa’ raggiunse il cancello in tempo per vedere l’auto decrepita e ammaccata girare l’angolo, sbuffando e sobbalzando, e avanzare affannosamente sulla strada abbandonata da tanto tempo. Il vapore usciva sibilando dal radiatore surriscaldato, e una nuvola di fumo azzurrino usciva dallo scappamento, che aveva perduto il silenziatore da cinque anni almeno.

Ole era seduto stoicamente al volante, e stringeva gli occhi, cercando di evitare le buche e le maggiori asperità della strada, benché questo fosse difficile; le erbacce avevano invaso completamente la vecchia carreggiata, ed era difficile vedere cosa nascondeva quel mantello verde.

Pa’ agitò il bastone:

«Ciao, Ole!» gridò.

Ole si chinò, e azionò il freno a mano. L’auto ansimò, sobbalzò, tossì e si fermò con un orribile sospiro.

«Che cosa usi, per farla andare?» chiese Pa’.

«Un po’ di tutto.» rispose Ole. «Cherosene, un poco di benzina per trattori che ho trovato in una vecchia latta, dell’alcol.»

Pa’ guardò l’automobile sopravvissuta, con ammirazione. «Quelli erano giorni,» disse. «Io ne avevo una che poteva fare i centottanta all’ora.»

«Sempre in gamba,» disse Ole, «Se riesci a trovare il carburante e i pezzi di ricambio. Fino a tre, quattro anni fa, riuscivo sempre a trovare la benzina sufficiente, ma ormai è un pezzo che non se ne trova più. Hanno smesso di farla, immagino. È inutile avere la benzina, dicono, se c’è l’energia atomica a disposizione.»

«Già,» disse Pa’. «Immagino che abbiano ragione, ma come si fa a sentire l’odore dell’energia atomica? L’odore della benzina che brucia nel motore è il più buono del mondo. Tutti questi elicotteri e gli altri aggeggi che si vedono oggi sono riusciti a togliere tutta l’emozione del viaggio.»

Diede un’occhiata ai piccoli barili e alle ceste ammucchiati sul sedile posteriore.

«Hai degli ortaggi?» chiese.

«Sì,» disse il contadino. «Pannocchie di granoturco e patate novelle e qualche cesta di pomodori. Pensavo che forse avrei trovato da venderli.»

Pa’ scosse il capo.

«Hai pensato male, Ole. Non te li comprerà nessuno. La gente si è messa in testa che solo quei nuovi prodotti idroponici sono degni di essere mangiati. Più igienici, più sani, e più saporiti.»

«Non darei un soldo bucato per tutto quello che fanno crescere in quelle dannate vasche.» dichiarò Ole, in tono bellicoso. «Per me, quella roba non ha un sapore giusto. Lo dico sempre a Martha, che il cibo deve crescere nella terra, per avere un po’ di carattere.»

Si curvò per abbassare la levetta della messa in moto.

«Non so se valga la pena di portare la roba in città,» disse, «Con le strade ridotte in questo modo. Come le tengono… o meglio, come non le tengono! Venti anni fa la statale era una striscia di buon cemento, e la curavano e la riparavano e la tenevano liscia e solida come un biliardo. E dovevi vederli, a ogni inverno… facevano di tutto, spendevano qualsiasi somma, per tenerla sempre aperta. E adesso se ne sono scordati, così, e basta. Il cemento è tutto crepato e le piogge hanno portato via dei pezzi e nelle crepe ci cresce addirittura l’insalata. Stamattina ho dovuto scendere a togliere di mezzo un albero che vi era caduto sopra, addirittura.»

«Dico io, se non è vero!» annuì Pa’.

L’auto si risvegliò, con uno scoppio, e cominciò a tossire e a sibilare. Una densa nube di fumo azzurrino la circondò; poi, con uno strattone che la fece cigolare in ogni fibra, si avviò sbuffando e sobbalzando lungo la strada.

Pa’ ritornò lentamente alla sua sedia a sdraio, e la ritrovò fradicia d’acqua. La falciatrice automatica, avendo finito di falciare il prato, aveva preso la pompa e stava innaffiando.

Masticando una serie di imprecazioni velenose, Pa’ girò intorno alla casa, zoppicando, e sedette sulla panchina che si trovava accanto alla veranda sul retro. Non gli piaceva stare seduto laggiù, ma era l’unico posto riparato da quella ferraglia scatenata che imperversava nel prato.

Per prima cosa, la vista che si aveva dalla panchina era un po’ deprimente: una strada dopo l’altra di case deserte, abbandonate, e giardini abbandonati, incolti e invasi dalle erbacce.

C’era un vantaggio, però. Dalla panchina lui poteva fingere di essere un po’ sordo e di non sentire l’infernale musica da ballo che la radio continuava a vomitare.

Una voce lo chiamò dal prato.

«Bill! Bill, dove sei?»

Pa’ si girò di scatto.

«Sono qui, Mark. Dietro la casa. Mi nascondo da quella miseria di falciatrice.»

Mark Bailey apparve, zoppicando, sull’angolo della casa, con la sigaretta stretta tra i denti che minacciava di bruciare i suoi baffoni cisposi.

«Sei un po’ in anticipo per la partita, no?» chiese Pa’.

«Oggi non posso giocare, disse Mark.

Si avvicinò e venne a sedersi sulla panchina, accanto a Pa’.

«Ce ne andiamo,» disse.

Pa’ si voltò a guardarlo.

«Ve ne andate!»

«Già. Ci trasferiamo in campagna. Lucinda, alla fine, è riuscita a convincere Herb. Immagino che non abbia avuto un momento di pace, povero Herb. Lei continuava a dire che tutti i nostri conoscenti si stavano trasferendo in una di quelle belle tenute di campagna, e che non capiva per quale motivo non dovessimo farlo anche noi.»

Pa’ inghiottì a fatica.

«Dove andate?»

«Non lo so, esattamente,» disse Mark. «Io non ci sono stato. A nord, da qualche parte. Verso uno dei laghi. Abbiamo dieci acri di terra. Lucinda ne voleva cento, lei, ma Herb ha puntato i piedi e ha detto che dieci bastavano. Dopotutto, una casa di città ci è bastata per tutti questi anni.»

«Anche Betty non concede un momento di pace a Johnny, per lo stesso motivo,» disse Pa’. «Ma lui riesce a resistere. Dice che non può, che proprio lui, segretario della Camera di Commercio e tutto il resto, darebbe un’impressione sbagliata, andandosene dalla città.»

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