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Anche quegli strani uomini avevano ascoltato le ombre?

La porta scricchiolò, si aprì una fessura sottilissima e Webster si rizzò di scatto a sedere.

Una voce uscì dall’oscurità:

«Il signore si trova bene, qui? Il signore desidera qualcosa?»

«Jenkins?» domandò Webster.

«Sono io, signore,» disse Jenkins.

La forma oscura del robot entrò silenziosamente nella camera.

«Sì, voglio qualcosa,» disse Webster. «Voglio parlare con te.»

Fissò la nera figura metallica che si era fermata accanto al suo letto.

«Voglio parlare dei cani,» disse Webster.

«Ci mettono tanta buona volontà,» disse Jenkins. «E per loro è così difficile. Perché non hanno nessuno, vede, signore? Non hanno nessuno, non un’anima.»

«Hanno te.»

Jenkins scosse il capo.

«Ma io non basto, signore. Io sono soltanto… bene, una specie di mentore. E loro vogliono gli uomini. Il bisogno degli uomini fa parte della loro natura. Per migliaia d’anni sono stati uomo e cane. Uomo e cane, che andavano a caccia insieme. Uomo e cane, che sorvegliavano insieme il gregge. Uomo e cane, che combattevano insieme i loro nemici. Il cane stava di guardia mentre l’uomo dormiva, e l’uomo dava il suo ultimo boccone di cibo, soffriva la fame, purché il suo cane potesse mangiare.»

Webster annuì.

«Sì, immagino che tu abbia ragione.»

«I cani parlano degli uomini ogni sera,» disse Jenkins, «Prima di addormentarsi. Si riuniscono, siedono in circolo e uno degli anziani narra una delle storie che sono state tramandate, e i cani stanno seduti e ascoltano, stanno seduti e sperano.»

«Ma dove stanno andando? Cosa stanno cercando di fare? Hanno un piano, un’idea generale su quale sarà la loro méta?»

«Riesco a vedere una traccia,» disse Jenkins. «Solo un vago barlume di ciò che potrà accadere. I cani sono medianici, signore. Lo sono sempre stati. Non hanno il senso della meccanica, ed è comprensibile, perché non hanno mani. Là dove l’uomo ha seguito il metallo, i cani seguiranno i fantasmi.»

«Fantasmi?»

«Le cose che gli uomini chiamano fantasmi. Ma non sono fantasmi, in realtà. Ne sono certo. Sono cose che si trovano nella stanza accanto. Forme di vita diverse in un piano diverso d’esistenza.»

«Vuoi dire che sulla Terra possono coesistere diversi piani di vita, simultaneamente?»

Jenkins annuì.

«Comincio a crederlo, signore. Ho un quaderno d’appunti pieno delle cose che i cani hanno visto e sentito, e ora, dopo tanti anni, queste cose cominciano a formare uno schema compiuto.»

Si affrettò a proseguire.

«Potrei sbagliarmi, signore. Perché vede, io non ho avuto istruzione. Ero soltanto un servitore, ai vecchi tempi, signore. Ho cercato di imparare e proseguire io il lavoro, dopo… dopo Giove, ma è stato difficile, per me. Un altro robot mi ha aiutato a fabbricare i primi piccoli robot per i cani, e adesso sono i piccoli a fabbricare altri robot simili a loro, quando ce n’è bisogno, nell’officina.»

«Ma i cani… si limitano a stare seduti ad ascoltare?»

«Oh, no, signore, i cani fanno molte altre cose. Cercano di fare amicizia con altri animali e sorvegliano i robot selvaggi e i mutanti…»

«I robot selvaggi, dici? Ce ne saranno molti.»

«Moltissimi, signore. Sono disseminati per tutto il mondo, in piccoli accampamenti. Sono quelli che furono abbandonati sulla Terra, signore. Quelli dei quali l’uomo non ebbe più bisogno, quando andò su Giove. Si sono radunati in tanti gruppi e lavorano…»

«Lavorano. A qual fine?»

«Non so, signore. Principalmente, costruiscono delle macchine. Tutti i robot selvaggi costruiscono delle macchine. Deve essere la loro mentalità meccanica. Spesso mi domando cosa se ne faranno di tutte le macchine che hanno già costruito. Per quale scopo intendano usarle.»

«Anch’io me lo chiedo,» disse Webster.

E Webster guardò nell’oscurità e cominciò a farsi delle domande… cominciò a chiedersi in qual modo l’uomo, chiuso nel nido caldo e vuoto di Ginevra, avesse potuto perdere contatto con il resto del mondo. Com’era possibile, si chiese, che l’uomo non sapesse quello che facevano i cani, e non sapesse dei piccoli accampamenti di robot affaccendati in un oscuro lavoro, e non sospettasse neppure l’esistenza dei castelli dei mutanti temuti e odiati?

Abbiamo perso il contatto, pensò Webster. Abbiamo chiuso il mondo fuori della nostra porta, e abbiamo dimenticato la chiave. Ci siamo creati una piccola nicchia calda, e ci siamo rifugiati là dentro… nell’ultima città del mondo. E non abbiamo più saputo quello che accadeva fuori della città… avremmo potuto saperlo, avremmo dovuto saperlo, ma non ci importava, non ci importava.

È ora che ci muoviamo di nuovo, pensò. È ora che riprendiamo a essere noi stessi. È ora di ricominciare il cammino.

Ci siamo trovati soli e perduti e sommersi da un mondo troppo grande per noi, e all’inizio abbiamo tentato, ma poi, alla fine, ci siamo fermati, abbiamo deciso di rinunciare.

Per la prima volta, i pochi che erano rimasti si erano resi conto della grandezza della razza, avevano compreso per la prima volta il gigantesco lavoro svolto dalle mani degli uomini. E avevano cercato di portare avanti questo lavoro, e non avevano potuto farlo. E così avevano razionalizzato… com’è abitudine dell’uomo, capace di razionalizzare quasi tutto. Fino al punto di chiudere gli occhi e di illudersi che non esistano i fantasmi, di dare alle cose che si muovono nella notte il pruno termine razionale e rassicurante che possa spiegarne l’esistenza e allontanare l’ombra della paura.

Noi non abbiamo potuto mantenere in movimento la macchina dell’umanità, e così abbiamo razionalizzato, ci siamo rifugiati dietro uno schermo di parole e il juwainismo ci ha aiutati a farlo. Ci siamo avvicinati alla mitizzazione dei nostri antenati, all’adorazione del passato. Abbiamo cercato di glorificare il genere umano. Non siamo stati capaci di portare avanti il lavoro degli uomini, e così abbiamo cercato di glorificarlo, abbiamo cercato di innalzare su un trono divino gli uomini che avevano saputo svolgere quel lavoro. Come tentiamo sempre, fin dall’inizio del tempo, di glorificare e divinizzare tutte le buone cose che muoiono.

Siamo diventati una razza di storici e abbiamo scavato con dita sporche di polvere e di oblio tra le rovine del genere umano, stringendoci al petto qualsiasi piccolo fatto trascurabile, come se esso fosse stato un gioiello prezioso. E questa è stata la prima fase, il passatempo che ci aiutava a vincere la noia e ci aiutava a capire, finalmente, quello che eravamo in realtà… i sedimenti rimasti sul fondo della vuota bottiglia dell’umanità.

Ma abbiamo vinto anche questo. La noia e l’autocommiserazione e l’impotenza. Oh, certo, abbiamo superato questo stadio. Nel giro di una generazione, o poco più. L’Uomo è una creatura adattabile… può sopravvivere a qualsiasi prova. Così, dunque, non potevamo costruire delle grandi astronavi. Così, dunque, non potevamo raggiungere le stelle. Così, dunque, non potevamo frugare tra i misteri della vita. E allora?

Noi eravamo gli eredi, ci era stata lasciata l’eredità, eravamo a un punto migliore di quanto nessuna razza mai fosse stata, di quanto nessuna razza possa sperare di trovarsi in futuro. E così abbiamo razionalizzato, ancora una volta, e ci siamo dimenticati la gloria della razza, perché, pur essendo splendida e meravigliosa, era anche un’idea dolorosa, un ricordo amaro, un concetto umiliante.

«Jenkins,» disse Webster, in tono severo, «Abbiamo sprecato dieci interi secoli.»

«No, non sprecato, signore,» disse Jenkins. «Forse è stato solo un riposo. E adesso, forse, potrete uscire di nuovo. Ritornare da noi.»

«Ma voi ci volete?»

«I cani hanno bisogno di voi,» gli disse Jenkins. «E anche i robot hanno bisogno. Perché entrambi, cani e robot, non sono mai stati nulla di più che servitori dell’uomo. Sono perduti, senza di voi. I cani stanno costruendo una civiltà, ma questa civiltà sta nascendo lentamente, molto lentamente.»

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