Immerso nei suoi pensieri, intrecciò le dita, mosse nervosamente le mani, e il pollice della mano destra cominciò a fregare il dorso della mano sinistra.
Ebenezer si fece avanti, nell’oscurità cupa nella quale danzavano le ultime lingue rossigne del fuoco morente, appoggiò le zampe anteriori sul ginocchio dell’uomo e sollevò il muso per guardarlo negli occhi.
«Ti sei fatto male alla mano?» chiese.
«Come?»
«Ti sei fatto male alla mano? Te la stai fregando.»
Webster rise, una risata secca e breve.
«No, sono soltanto dei porri.» Li mostrò al cane.
«Accidenti, dei porri!» disse Ebenezer. «Tu non li vuoi, vero?»
«No,» Webster esitò. «No, immagino di no. Non ho mai avuto il tempo di farmeli togliere.»
Ebenezer, abbassando il muso, fregò col naso umido il dorso della mano di Webster.
«Ecco fatto,» annunciò, trionfante.
«Ecco fatto… che cosa?»
«Guardati la mano,» lo invitò Ebenezer.
Un ramo cadde nel focolare, e la fiamma guizzò d’un tratto vivida, e nella luce improvvisa Webster alzò la mano e la guardò.
I porri erano spariti. La pelle era liscia e immacolata.
Jenkins stava in piedi nell’oscurità e ascoltava il silenzio, il soffice silenzio strisciante e dormiente che lasciava la casa alle ombre, ai passi ormai quasi dimenticati, alla breve frase pronunciata tanto tempo prima, alle lingue che mormoravano nelle pareti e frusciavano tra le tende e gli arazzi.
Bastava un pensiero, e per lui la notte sarebbe stata come il giorno; una semplice correzione nelle lenti dei suoi occhi avrebbe dato questo risultato, gli avrebbe permesso di vedere nelle tenebre come se esse fossero state rischiarate dai raggi caldi del sole. Ma l’antico robot non volle cambiare la sua vista, perché gli piaceva così, perché quella era l’ora della meditazione, era il momento prezioso, atteso nelle lunghe ore del giorno, nel quale il presente si confondeva e si addormentava, e il passato ritornava e viveva in lui e intorno a lui.
Gli altri dormivano, ma Jenkins non dormiva, perché i robot non dormivano mai, non conoscevano il sonno. Duemila anni di pensieri e di lucidità, venti secoli di tempo pieno e perenne, mai interrotto da un solo istante di riposo, di quiete, di abbandono e di oblio.
Molto tempo, pensò Jenkins, Molto tempo perfino per un robot; perché, ancor prima che l’Uomo se ne andasse su Giove, quasi tutti i robot più antichi erano stati disattivati, era scoccata anche per loro l’ora della morte, erano stati mandati al riposo eterno, giusto e meritato, per venire sostituiti dai modelli più recenti. I modelli più recenti e più perfezionati, che avevano avuto un aspetto più simile a quello degli uomini, che erano stati più efficienti e più gradevoli alla vista, che avevano parlato in maniera più umana, che avevano reagito più rapidamente, con i loro nuovi cervelli di metallo.
Ma Jenkins era sopravvissuto a quell’epoca di cambiamenti, perché Jenkins era stato un servitore vecchio e fedele, perché la Casa dei Webster non sarebbe stata più una casa, senza di lui.
«Mi volevano bene,» disse Jenkins, tra sé. E in quelle tre parole c’era un conforto dolce e caldo… c’era conforto in un mondo che aveva conservato ben poche cose dolci e confortanti, in un mondo nel quale un servo era diventato un capo, e con tutto il suo essere desiderava, desiderava disperatamente di tornare a essere un servo.
Rimase fermo davanti alla finestra e guardò fuori, dove le macchie oscure delle grandi querce antiche si stagliavano sullo sfondo cupo della collina tenebrosa. Oscurità, tenebre. Nessuna luce, neppure un vago riverbero tremolante, un lontano bagliore. E c’era stato un tempo in cui c’erano state tante luci. Finestre che avevano irradiato la luce amica, che avevano rischiarato come fari benevoli la vasta distesa della terra di là dal fiume.
Ma l’uomo se ne era andato e non c’erano più luci. I robot non avevano bisogno di luci, perché loro potevano vedere nel buio, come anche Jenkins avrebbe potuto vedere, se solo lo avesse desiderato. E i castelli dei mutanti erano cupi e oscuri di notte com’erano cupi e spaventosi durante il giorno.
Adesso l’uomo era ritornato, un uomo solo. Era venuto, ma non sarebbe rimasto, forse. Avrebbe dormito per qualche notte nella grande camera da letto del padrone di casa, al primo piano, e poi se ne sarebbe tornato a Ginevra. Avrebbe passeggiato sugli antichi acri dimenticati e avrebbe guardato oltre il fiume e avrebbe sfogliato i libri che tappezzavano la parete dello studio, poi si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato.
Jenkins si mosse. Dovrei andare a vedere come sta, pensò. Dovrei andare a vedere se per caso ha bisogno di qualcosa. Magari potrei portargli un bicchiere di liquore. Ricordo dove ho lasciato il vassoio. Anche se il whisky, temo, sarà tutto andato a male. Mille anni sono molti, troppi, per una bottiglia di buon whisky.
Si mosse, e il suo passo si fece più sicuro, nelle tenebre della stanza, e una pace calda e silenziosa scese sopra di lui, la pace intima e completa dei vecchi tempi, quando lui si era affaccendato qua e là, felice come un terrier, per portare a buon fine i molti compiti che gli erano spettati, per eseguire nel migliore dei modi gli ordini dei suoi padroni.
Ricordò un’altra abitudine umana, mentre le note di una vecchia canzone conosciuta gli salivano alle labbra d’acciaio. Cominciò a mormorarla sottovoce, trovando uno strano piacere in questa usanza, mentre camminava ancor più eretto e sicuro verso le scale.
Avrebbe fatto capolino dalla porta, ecco; si sarebbe affacciato, come se fosse passato di là per caso, e se Jon Webster dormiva, se ne sarebbe andato subito, senza fare rumore; ma se era ancora sveglio, avrebbe detto:
«Il signore si sente a suo agio? Il signore desidera forse qualcosa? Magari un buon grog bollente, signore?»
E Jenkins salì le scale facendo due gradini per volta.
Perché lui era di nuovo al servizio di un Webster.
Jon Webster era disteso sul letto, con le spalle appoggiate ai cuscini. Il letto era duro e scomodo e la stanza era angusta e soffocante… non era come la sua camera da letto di Ginevra, dove ci si poteva distendere sulla riva soffice ed erbosa di un torrente mormorante, e guardare in alto le stelle artificiali che scintillavano in un cielo artificiale, dolce e profumato a mezzanotte. A Ginevra, riposandosi, lui avrebbe potuto sentire il profumo artificiale di un campo di fiori artificiali, di un pergolato di lillà artificiali, che avrebbero continuato a sbocciare e a fiorire più a lungo di quanto un uomo avesse potuto vivere. Là, nella casa antica, non si udiva il mormorio di una cascata nascosta, un mormorio che suggeriva l’idea di muschio umido e grondante e soffice, e non si vedevano balenare intorno i lampi fuggevoli di lucciole prigioniere… c’erano solo un letto e una stanza, semplici e funzionali.
Webster allungò le braccia, allargò le dita sulla coperta, pensando.
Ebenezer aveva semplicemente toccato i porri col naso umido e scuro e i porri erano scomparsi. E non era accaduto per caso… era stato intenzionale. Non era stato un miracolo, ma l’uso di un potere consapevole. Perché a volte i miracoli non si manifestano, a volte i miracoli non si ripetono, ed Ebenezer era stato sicuro, molto sicuro.
Un potere, forse, che veniva dalle stanze vicine, un potere che era stato rubato alle ombre che Ebenezer doveva ascoltare.
Un miracolo. Eppure non era un miracolo. Bastava imporre la mano… o il muso umido, se si trattava di un cane… e il male era guarito. Un potere di risanare che non comportava l’uso di medicine né di ferri chirurgici, ma solo una certa conoscenza, una conoscenza molto particolare.
In epoche antiche, negli anni oscuri dell’ignoranza, certi uomini avevano proclamato di possedere il dono di risanare le ferite, di far scomparire i porri fastidiosi; e avevano venduto questo loro potere per pochi spiccioli, o per ottenere qualcosa di concreto in cambio, ed erano stati chiamati guaritori e praticoni, stregoni e maghi. E dopo le pratiche magiche, al momento giusto, qualche volta, i porri erano scomparsi, la magia aveva funzionato.