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Sutty sbucò dal cunicolo e si alzò in piedi. Aveva tirato fuori gli occhiali scuri, aspettandosi di rimanere abbagliata, ma il sole, nascosto tutto il pomeriggio dalla grande mole del Silong, stava tramontando o era tramontato. La luce era delicata, con una lieve sfumatura viola. Nelle ultime ore era caduta un po’ di neve. L’ampio semicerchio della conca, come un palcoscenico visto dal fondale, si stendeva pallido e senza una sola impronta fino al margine esterno. L’aria era immota, lì, sotto la parete della montagna, ma là in fondo, sull’orlo, a un centinaio di metri, il vento sollevava e lasciava cadere la neve fine e asciutta, formando turbini e mulinelli impalpabili, in perenne movimento.

Sutty era stata sull’orlo solo una volta. Il precipizio sottostante era uno strapiombo di almeno un chilometro, un abisso. Le aveva fatto girare la testa, e mentre era là, il vento l’aveva investita con raffiche insidiose.

Spinse lo sguardo oltre la lieve danza incessante dei turbini di neve, attraverso il vuoto dell’aria crepuscolare, fino allo Zubuam. Le pendici del Tonante erano indistinte, pallide e remote, di sera. Rimase a lungo a osservare la luce che si spegneva a poco a poco.

Andava a parlare con Yara quasi tutti i pomeriggi, dopo avere esplorato un altro settore della Biblioteca e avere lavorato con i maz che la stavano catalogando. Non tornarono mai apertamente su quello che si erano detti delle rispettive vite, anche se era alla base di tutto ciò che dicevano, una base lugubre.

Una volta, Sutty gli chiese se sapesse perché l’Azienda aveva accolto la richiesta di Tong Ov, permettendo a un’extraplanetaria di uscire dall’ambiente controllato di Dovza City, dove l’accesso alle informazioni importanti non era consentito. «Ero un esperimento?» chiese. «O un’esca?»

Non fu facile per Yara superare le abitudini della sua vita di funzionario, della vita di tutti i burocrati: proteggere e accrescere il proprio potere nascondendo informazioni, lasciando che il silenzio sottintendesse che era in possesso di informazioni anche quando non era vero. Si era attenuto a quella regola per tutta la sua vita adulta, e probabilmente adesso non sarebbe riuscito a staccarsene se da bambino non fosse vissuto nella Narrazione. Comunque, rispondere gli costò uno sforzo visibile. Sutty osservò la lotta interiore, e provò un senso di colpa. Giacendo in quella tenda, prigioniero delle sue ferite, dipendente dai suoi nemici, Yara non disponeva che dell’arma del silenzio. Per rinunciarvi e parlare, bisognava essere valorosi. Cedere quel poco che si aveva in mano.

«Il mio dipartimento non è stato informato» esordì, poi s’interruppe, e ricominciò: «Credo che ci siano stati…» e infine, caparbio, riprese da capo, parlando il gergo burocratico della sua professione. «Da parecchi anni, si svolgono discussioni ad alto livello riguardanti la politica estera. Dato che una nave akana è in viaggio alla volta di Hain, ed essendo a conoscenza del fatto che è previsto l’arrivo di una nave ekumenica l’anno prossimo, alcuni elementi nell’ambito del Consiglio hanno propugnato una politica più distensiva. È stato detto che potrebbe essere vantaggioso aprire alcune porte per consentire un incremento del reciproco scambio di informazioni. Altri elementi, ai quali spetta prendere decisioni in tali questioni, erano dell’avviso che il controllo della dissidenza da parte dell’Azienda fosse ancora troppo incompleto e che un atteggiamento lassistico fosse poco opportuno. Un… una forma di compromesso è stata alla fine raggiunta tra le diverse correnti di opinione.»

Quando Yara ebbe esaurito le costruzioni passive, Sutty fece una sommaria traduzione mentale e disse: «Così, io ero il compromesso? Un esperimento, allora. E a te hanno assegnato l’incarico di sorvegliarmi e riferire».

«No» replicò Yara, di colpo brusco, schietto. «L’ho chiesto io. Mi hanno autorizzato. All’inizio. Pensavano che quando tu avessi visto la povertà e l’arretratezza della regione di Rangma, saresti tornata subito in città. Quando ti sei fermata a Okzat-Ozkat, l’Esecutivo Centrale non sapeva come esercitare il controllo senza apparire offensivo. Il mio dipartimento ha dovuto obbedire di nuovo a ordini dall’alto. Io ho consigliato che ti richiamassero nella capitale. Perfino i miei superiori, del mio dipartimento, hanno ignorato i miei rapporti. Mi hanno ordinato di tornare nella capitale. Non vogliono ascoltare. Non credono alla forza dei maz nelle cittadine e nella campagna. Pensano che la Narrazione sia finita!»

Parlò con una collera intensa e desolata, prigioniero della trappola della propria sofferenza, una sofferenza complessa e insolubile. Sutty non seppe cosa dirgli.

Il loro silenzio diventò a poco a poco più sereno, mentre ascoltavano il silenzio puro delle caverne, e vi si abbandonavano.

«Avevi ragione» disse infine Sutty.

Lui scosse il capo, sprezzante, impaziente. Ma quando lei se ne andò, dicendogli che sarebbe tornata l’indomani, le sussurrò: «Grazie, yoz Sutty». Appellativo servile, fraseologia rituale insignificante. Dal profondo del cuore.

Dopo quella volta, le loro conversazioni furono più rilassate. Yara voleva che lei gli parlasse della Terra, ma per lui era difficile capire, e spesso, anche se Sutty pensava che avesse capito, Yara negava. Protestò: «Mi parli solo di distruzione, di azioni crudeli, di come sono andate male le cose. Tu odi la tua Terra».

«No» replicò lei. Guardò la parete della tenda. Vide la curva della strada appena prima dell’inizio del villaggio, e la polvere ai margini della strada, dove lei e Moti giocavano. Polvere rossa. Moti le aveva insegnato a costruire piccoli villaggi di fango e di sassolini, piantando fiori tutt’intorno a essi. Lui aveva un anno intero più di Sutty. I fiori appassivano subito al sole rovente dell’estate interminabile. Si arricciavano e cadevano e tornavano nel fango rosso scuro che seccava e diventava polvere morbida.

«No, no» disse. «Il mio mondo è talmente bello che la sua bellezza non si può descrivere, e io lo amo, Yara. Quello che ti sto dicendo è propaganda. Sto cercando di spiegarti perché, prima di cominciare a imitare quello che facciamo, il tuo governo avrebbe fatto meglio a guardare bene chi siamo. E cosa abbiamo fatto a noi stessi.»

«Ma siete venuti qui. E avevate tante conoscenze che noi non avevamo.»

«Lo so, lo so. Gli hainiani hanno fatto la stessa cosa con noi. Abbiamo cercato di copiare gli hainiani, di raggiungere il livello degli hainiani, fin da quando ci hanno trovato. Forse l’Unismo rappresentava anche una protesta contro quello. Una rivendicazione del nostro sacrosanto diritto di essere sciocchi, irragionevoli e ipocriti a modo nostro, maledizione, non nel modo di qualcun altro.»

Yara rifletté. «Ma noi dobbiamo imparare. E tu hai detto che l’Ekumene ritiene che sia sbagliato nascondere qualsiasi conoscenza.»

«L’ho detto. Ma gli storici studiano il modo in cui la conoscenza dovrebbe essere insegnata, perché quello che la gente impara sia conoscenza autentica, non frammenti sparsi che non combaciano. C’è una parabola hainiana, la parabola dello specchio. Se il vetro è intero, riflette il mondo intero, ma rotto, mostra solo frammenti, e taglia le mani che lo tengono. Quello che la Terra ha dato ad Aka è una scheggia dello specchio.»

«Forse è per questo che i Dirigenti hanno mandato indietro gli Emissari.»

«Gli Emissari?»

«Gli uomini della seconda nave dalla Terra.»

«Seconda nave?» ripeté Sutty, allarmata e perplessa. «C’è stata solo una nave proveniente dalla Terra, prima di quella che ha portato me.»

Ma mentre parlava, ricordò l’ultima lunga conversazione con Tong Ov. Tong le aveva chiesto se pensava che i Padri unisti, agendo senza informare l’Ekumene, potessero aver mandato dei missionari su Aka.

«Parlamene, Yara! Non so nulla di quella nave.»

Sutty vide che Yara si ritraeva impercettibilmente, lottando contro la riluttanza istintiva a rispondere. "Questa è un’informazione riservata" pensò. "Nota solo alle alte sfere. Non fa parte della storia ufficiale dell’Azienda. Anche se, senza dubbio, loro davano per scontato che noi ne fossimo al corrente."

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