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Una pausa. L’indice magro del vegliardo si mosse sopra il disegno che lei aveva fatto. «Non vediamo le radici» disse il Fecondatore.

Sutty ascoltò.

«Il tronco dell’albero» proseguì lui, indicando l’elemento del disegno che, in un edificio, era la porta a due battenti. «I rami e il fogliame dell’albero, la chioma di foglie.» Indicò la "nuvola" a cinque lobi sopra il tronco. «Questo è anche il corpo, vedi, yoz…» Si toccò le anche e i fianchi, si batté leggermente la testa con un movimento come di foglie delle dita, e sorrise brevemente. «Il corpo è il corpo del mondo. Il corpo del mondo è il mio corpo. Così, dunque, l’uno fa due.» Le sue dita mostrarono il punto in cui il tronco si divideva. «E i due generano ognuno tre rami, che si ricongiungono, dando cinque.» Le dita si spostarono sui cinque lobi del fogliame. «E dai cinque nasce la miriade, le foglie e i fiori che muoiono e ritornano, ritornano e muoiono. Gli esseri, le creature, le stelle. L’essere che si può descrivere. Però non vediamo le radici. Non possiamo vederle, descriverle.»

«Le radici sono nella terra…?»

«La montagna è la radice.» Il Fecondatore fece un bellissimo gesto solenne, unendo in punta il dorso delle mani e formando così con le dita una vetta, poi toccandosi il petto sul cuore.

«La montagna è la radice» ripeté Sutty. «Questi sono misteri.»

Lui tacque.

«Non puoi dirmi altro? Parlami del due, e del tre, e del cinque, yoz.»

«Per parlare di queste cose è necessario molto tempo, yoz.»

«Ho tutto il tempo necessario per ascoltare, non devo fare altro. Però non voglio far perdere tempo a te, né disturbarti. Né chiederti di dirmi cose che non vuoi dirmi, cose che è meglio tenere segrete.»

«Tutto è tenuto segreto, adesso» commentò il Fecondatore con quella sua vocetta flebile. «Eppure è tutto in bella vista.» Si girò, e guardò le file di cassettini e le pareti sopra gli armadi interamente coperte di parole, incantesimi, poesie, formule. Adesso, agli occhi di Sutty, gli ideogrammi non si espandevano e non si contraevano, non respiravano, ma rimanevano immobili sui muri alti immersi nella penombra. «Ma per molti non sono parole, sono solo vecchi graffi, scarabocchi. Così la polizia li lascia stare… Al tempo di mia madre, tutti i bambini sapevano leggere. Potevano iniziare a leggere la storia. La narrazione non è mai cessata. Nelle foreste e sulle montagne, nei villaggi e nelle città, narravano la storia, la narravano a voce alta, la leggevano a voce alta. Eppure era tutto segreto anche allora. Il mistero dell’inizio, delle radici del mondo, le tenebre. La fine, yoz. Dove è il principio.»

Così iniziò l’istruzione di Sutty. Anche se in seguito lei concluse che in realtà era iniziata quando, seduta al tavolinetto nella propria stanza in casa di Iziezi, aveva sentito per la prima volta il sapore di quel cibo sulla lingua.

Uno degli storici di Darranda diceva: "Imparare una credenza senza credere è come cantare una canzone senza melodia".

Sottomettersi, obbedire, essere disposti ad accettare quelle note come le note giuste, quel modello come il modello vero, ecco il gesto essenziale per eseguire, tradurre, comprendere. Il gesto non doveva essere permanente, un atteggiamento mentale o spirituale duraturo; tuttavia non era falso. Era qualcosa di più della sospensione dell’incredulità necessaria per assistere a una commedia, ma era qualcosa di meno di una conversione. Era una posizione, una postura nella danza. Gli insegnanti di Sutty, provenienti da molti mondi e radunati nella città di Valparaíso, in Cile, le avevano insegnato questo, e lei non aveva motivo di mettere in discussione i loro insegnamenti.

Era andata su Aka per imparare a cantare la canzone di quel mondo, a ballare la sua danza; e finalmente, secondo lei, lontano dal rumore incessante della città, stava cominciando a sentire la musica e a imparare a muoversi al ritmo di quella musica.

Un giorno dopo l’altro, registrò i propri appunti, osservazioni confuse che si contraddicevano, approfondivano, rivedevano, ipotizzavano, un’abbondanza caotica di informazioni su ogni sorta di argomento, una mappa disordinata e frammentaria che malgrado la sua complessità rappresentava solo uno schizzo approssimativo di un angolo dell’immensità che lei doveva esplorare: un modo di pensare e di vivere sviluppato ed elaborato nel corso di migliaia di anni dalla grande maggioranza degli esseri umani di quel mondo, un enorme sistema interdipendente di simboli, metafore, corrispondenze, teorie, cosmologia, cucina, callistenia, fisica, metafisica, metallurgia, medicina, fisiologia, psicologia, alchimia, chimica, calligrafia, numerologia, erboristeria, alimentazione, leggende, parabole, poesia, storia e racconti.

In quell’immensa foresta vergine mentale, Sutty cercò sentieri e segni, istituzioni che potessero essere descritte, idee che potessero essere definite. Evitò d’istinto i grandi concetti nebulosi e cercò elementi tangibili, come l’architettura. Gli edifici di Okzat-Ozkat con la doppia porta che rappresentava l’Albero una volta erano templi, "umyazu", una parola adesso bandita, cancellata. Le parole cancellate erano utili segnalazioni di sentieri che avrebbero potuto indicare la strada da seguire in quell’area selvaggia. "Tempio" era la traduzione migliore? Cosa accadeva nell’umyazu?

Be’, le avevano risposto, la gente un tempo andava là e ascoltava.

Cosa?

Oh, be’, le storie, ecco.

Chi raccontava le storie?

Oh, i maz. Vivevano là. Alcuni di loro.

Sutty dedusse che gli umyazu dovevano essere stati delle specie di monasteri, di chiese, e molto simili a biblioteche: luoghi dove dei professionisti raccoglievano e conservavano i libri e la gente andava a imparare a leggerli, a sentirli leggere. Nelle aree più ricche, c’erano stati grandi e prosperi umyazu, dove la gente si recava in pellegrinaggio per vedere i tesori della biblioteca e "sentire la Narrazione". Quelli erano stati tutti distrutti, abbattuti o fatti saltare, tranne il più vecchio e famoso, la Montagna d’Oro, molto lontano, a oriente.

Da un quasivero ufficiale che aveva seguito con partecipazione totale quando era a Dovza City, Sutty sapeva che la Montagna d’Oro era stata trasformata in un Sito Aziendale per il culto del Dio della Ragione: un culto artificiale che esisteva solo in quel centro turistico e in certi slogan e vaghe dichiarazioni dell’Azienda. Prima, comunque, la Montagna d’Oro era stata sventrata. Il quasivero mostrava scene di libri che venivano tolti da un grande archivio sotterraneo per mezzo di macchine, enormi pale che li ammassavano su camion ribaltabili come fossero immondizia, scavatrici che li spingevano a mucchi in una discarica. Chi seguiva il quasivero con la realtà virtuale prendeva parte alle operazioni di una di quelle macchine, mentre una musica vivace e allegra suonava come sottofondo. Sutty aveva fermato il quasivero a metà della scena, e aveva scollegato le connessioni corporee della realtà virtuale dall’apparecchio. In seguito, aveva guardato e ascoltato i quasiveri dell’Azienda senza più parteciparvi direttamente, anche se ricollegava i moduli errevi ogni giorno, quando lasciava la sua cabina di ricerca al Ministero Centrale della Poesia e dell’Arte.

Tali ricordi la inducevano a provare una certa solidarietà nei confronti di quella religione, ammesso che ciò che stava studiando fosse una religione, ma la cautela e la diffidenza bilanciavano il suo punto di vista. Lei doveva evitare i giudizi e le teorie, attenersi all’evidenza e all’osservazione, ascoltare e registrare quanto le dicevano.

Malgrado fossero tutte cose bandite, illecite, la gente ne parlava liberamente, rispondeva fiduciosa alle sue domande. Sutty non ebbe difficoltà a scoprire gli schemi e i cicli annuali e perenni di feste, digiuni, indulgenze, astinenze, celebrazioni. Quei riti, che in generale sembravano simili alle pratiche della maggior parte delle religioni che conosceva, adesso erano naturalmente segreti, nascosti, oppure inseriti in modo così complesso e discreto nel tessuto della vita comune che i Controllori del Dipartimento Socioculturale non erano in grado di indicare una particolare azione e dire: "Questo è proibito".

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