Da quel ricordo, Sutty sprofondò dolcemente nel sonno, il sonno tranquillo che faceva quasi sempre in quella stanza ampia e silenziosa.
Il giorno dopo fece una lunga camminata in riva al fiume, tornò tardi, stanca. Mangiò con Iziezi, lesse un po’, srotolò il materassino.
Non appena spense la luce e si coricò, tornò a Vancouver, il giorno dopo la libertà.
Erano andate a fare una passeggiata sopra la città, in New Stanley Park, loro due. C’erano ancora dei grandi alberi lassù, alberi enormi di prima dell’inquinamento. Abeti, aveva spiegato Pao. Abeti Douglas e abeti rossi, si chiamavano. Una volta le montagne erano coperte di alberi. «Coperte di alberi! Nere di alberi!» disse Pao, con la sua voce rauca, non modulata, e Sutty vide le grandi foreste nere, i folti capelli neri lucenti.
«Sei cresciuta qui?» chiese, perché non sapevano ancora nulla l’una dell’altra, e Pao rispose: «Sì, e adesso voglio andarmene via!».
«Dove?»
«Hain, Ve, Chiffewar, Werel, Yeowe-Werel, Gethen, Urras-Anarres, O!»
«O, O, O!» strillò Sutty, ridendo e piangendo quasi nel sentire la propria litania, il proprio mantra segreto gridato a squarciagola. «Anch’io! E le farò, lo farò, me ne andrò!»
«Stai studiando?»
«Sono al terzo anno d’addestramento.»
«Io ho appena iniziato.»
«Mettiti in pari!» esclamò Sutty.
E Pao per poco non recuperò. Fece tre anni di studio in due. Sutty si laureò dopo il primo di quegli anni e rimase il secondo come assistente, insegnando grammatica e hainiano alle matricole. Quando fosse andata alla Scuola Ekumenica a Valparaíso, lei e Pao sarebbero rimaste separate solo otto mesi; e Sutty sarebbe tornata a Vancouver per le vacanze di dicembre, quindi la loro separazione sarebbe durata in realtà appena quattro mesi, e poi altri quattro, e poi di nuovo insieme, avrebbero terminato insieme la Scuola Ekumenica, e sarebbero rimaste insieme per il resto della vita, su tutti i Mondi Conosciuti. «Faremo l’amore su un mondo di cui adesso nessuno conosce neppure il nome, a mille anni di distanza da oggi!» aveva detto Pao, ridendo con quella sua deliziosa risata chioccia che sgorgava dalla pancia e poi la scuoteva tutta, facendola dondolare avanti e indietro. Le piaceva ridere, le piaceva raccontare e ascoltare barzellette. A volte rideva nel sonno. Sutty sentiva la risata sommessa nel buio, e la mattina Pao le spiegava di avere sognato qualcosa di davvero buffo, e rideva ancora cercando di raccontarle quei sogni divertenti.
Vivevano nell’appartamento che avevano trovato e dove si erano trasferite due settimane dopo la libertà, il caro e sudicio seminterrato di Souché Street, Sushi Street, perché c’erano tre ristoranti giapponesi in quella strada. Avevano due stanze: una con il pavimento interamente coperto di futon, l’altra con il fornello, il lavandino, e il pianoforte verticale con quattro tasti rotti e muti che costituiva un arredo fisso dell’appartamento perché era troppo malridotto per una riparazione, e farlo portare via sarebbe costato troppo. Pao suonava dei bellissimi valzer con qualche nota mancante, mentre Sutty cucinava bhaigan tamatar. Sutty recitava le poesie di Esnanaridaratha di Darranda e rubacchiava mandorle mentre Pao friggeva il riso. Un topo mise al mondo dei topolini nella dispensa. Seguirono lunghe discussioni per decidere che fare dei cuccioli. Ci fu uno scambio di accuse etniche ingiuriose: la crudeltà dei cinesi, che trattavano gli animali come cose inanimate, la malvagità degli indiani, che davano da mangiare alle vacche sacre e lasciavano morire di fame i bambini. «Non voglio vivere con i topi!» urlò Pao. «E io non voglio vivere con un’assassina!» replicò Sutty. I topolini crebbero e cominciarono a fare razzie. Sutty comprò una trappola a gabbia di seconda mano. Come esca usarono del tofu. Presero i topi uno alla volta, e li liberarono in New Stanley Park. La madre fu l’ultima a essere catturata, e quando la liberarono cantarono:
Dio ti benedirà, madre amorevole
Del figlio del tuo fedel marito,
Stringiti a lui e non conoscer altri,
Vivi tu pura e incontaminata.
Pao conosceva parecchi inni unisti, e ne aveva uno per quasi tutte le occasioni.
Sutty prese l’influenza. L’influenza era una cosa spaventosa, molti tipi di virus erano mortali. Ricordava benissimo il terrore provato, in piedi nel tram affollato mentre il mal di testa la tormentava sempre più, e poi quando era arrivata a casa e i suoi occhi non riuscivano a mettere a fuoco il viso di Pao. Pao la curò notte e giorno e quando la febbre calò le fece bere dei tè medicinali cinesi che sapevano di piscio e di muffa. Sutty rimase debole per giorni e giorni, stesa sui futon a fissare il soffitto sporco e scolorito, debole e intontita, tranquilla, rimettendosi in salute.
Ma in quell’epidemia, la piccola Zietta trovò la strada del ritorno che portava al villaggio. La prima volta che Sutty si sentì abbastanza in forze per fare una visita a casa, fu un’esperienza strana trovarsi là con mamma e papà senza Zietta. Sutty continuava a girare la testa, pensando che Zietta fosse in piedi nel vano della porta o seduta nell’altra stanza, avvolta nella sua coperta-bozzolo sbrindellata. La mamma le diede i braccialetti di Zietta, i sei cerchietti di ottone di tutti i giorni, i due d’oro per mettersi in ghingheri, cerchietti minuscoli, fragili, in cui Sutty non sarebbe mai riuscita a infilare le mani. Li donò a Lakshmi, perché la bambina di Lakshmi li indossasse quando fosse cresciuta. «Non essere attaccata alle cose, sono un peso inutile, che intralcia. Quello che vale la pena di tenere, conservalo nella tua testa» aveva detto zio Hurree, predicando quello che aveva dovuto mettere in pratica. Sutty tenne però il sari di cotone rosso e arancione sottile sottile, che una volta piegato scompariva quasi e non poteva certo intralciarla. Era in fondo alla sua valigia, lì a Okzat-Ozkat. Un giorno forse l’avrebbe mostrato a Iziezi. Le avrebbe parlato di Zietta. Le avrebbe fatto vedere come si indossava un sari. Alla maggior parte delle donne interessava saperlo, alla maggior parte delle donne piaceva provarsi il sari. Una volta, Pao aveva provato il vecchio sari grigio e argento di Sutty, per divertirla durante la convalescenza, ma aveva detto che le ricordava troppo le gonne, che naturalmente aveva dovuto indossare in pubblico tutta la vita per via delle leggi uniste sull’abbigliamento, e inoltre non riusciva a capire come si facesse a fissarlo bene nella parte superiore. «Così mi usciranno le tette!» aveva strillato. E poi, facendole saltar fuori apposta, aveva eseguito una versione davvero notevole di quella che chiamava "danza classica indiana sui futon".
Sutty si era spaventata di nuovo, si era spaventata moltissimo, quando aveva scoperto che tutto quello che aveva appreso nei mesi prima di ammalarsi — la storia ekumenica, le poesie imparate a memoria, perfino semplici parole hainiane che conosceva da anni — sembrava essere stato cancellato. «Cosa farò, cosa farò, se non riesco a conservare le cose nemmeno nella testa?» aveva sussurrato a Pao, quando infine era crollata e aveva confessato il terrore che la tormentava da una settimana. Pao non l’aveva consolata molto, l’aveva solo lasciata sfogare e alla fine le aveva detto: «Penso che passerà. Penso che un po’ alla volta ti ritornerà in mente tutto». E naturalmente Pao aveva ragione. Parlare del problema si rivelò salutare. Il giorno dopo, mentre Sutty era in tram, i versi iniziali delle Terrazze di Darranda all’improvviso le sbocciarono nella mente come grandi fuochi d’artificio, quelle meravigliose parole ordinate, impetuose, ardenti; e lei capì che tutte le altre parole erano là al loro posto, non erano andate perse, aspettavano nell’oscurità, pronte a venire quando le avesse chiamate. Comprò un enorme mazzo di margherite e lo portò a casa per Pao. Le misero nell’unico vaso che avevano, di plastica nera, e la composizione floreale assomigliava a Pao, il nero e il bianco e l’oro. Con la visione di quei fiori, una consapevolezza intensa e completa del corpo di Pao la pervase adesso, lì nell’ampia stanza silenziosa su un altro mondo, come la pervadeva sempre là, allora, quando era con Pao, e quando non era con lei, ma in fondo erano sempre insieme, una vera separazione non c’era mai stata, nemmeno il lungo volo a sud lungo l’intera costa delle Americhe era stato una separazione. Nulla le aveva separate. "Non lasciar ch’io ammetta impedimento al connubio delle menti sincere…" «Oh, mia mente sincera» mormorò Sutty al buio, e sentì il caldo abbraccio che la stringeva prima di addormentarsi.