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Incrociando lo sguardo di Sutty, Iziezi le fece cenno di alzarsi.

Sutty si alzò in piedi, obbediente ma disgustata. Riuscire a raggiungere uno stato di meditazione collettiva così meraviglioso, e poi distruggerlo con quegli stupidi esercizi da culturisti. Ma che razza di gente era quella?

Due donne in blu e marrone chiaro stavano scendendo la rampa a grandi passi, al seguito di un uomo in blu e marrone chiaro. Il Controllore. I suoi occhi fissarono subito Sutty.

Lei era in piedi in mezzo agli altri, tutti immobili adesso, a parte l’ansito del petto.

Nessuno parlò.

Il divieto degli appellativi servili, dei saluti, di qualsiasi espressione di accoglienza e di commiato, creava dei buchi nella struttura del processo sociale, dei vuoti colmati solo con un piccolo sforzo, una tensione ricorrente. Gli akani di città erano cresciuti con quell’artificiosità e senza dubbio non l’avvertivano, ma Sutty l’avvertiva ancora, e sembrava che l’avvertissero anche gli altri lì dentro. Il silenzio rigoroso imposto dalle tre figure sulla rampa metteva i presenti in condizione di svantaggio: non sapevano come romperlo. Alla fine, il mutilato si schiarì la voce e disse con una certa baldanza: «Stiamo facendo esercizi aerobici salutari, come prescritto nel Manuale sanitario per i produttori-consumatori dell’Azienda».

Le due donne e il Controllore si scambiarono un’occhiata annoiata, stizzita, con un’aria di "te l’avevo detto, no?". Il Controllore si rivolse a Sutty come se lì dentro non ci fosse nessun altro. «Sei venuta qui per fare ginnastica aerobica?»

«Abbiamo esercizi molto simili nel mio paese» rispose Sutty, scaricando su di lui l’indignazione e lo sgomento in una raffica di eloquenza. «Sono contentissima di avere trovato qui un gruppo con cui esercitarmi. Spesso l’esercizio fisico è più proficuo se fatto con un gruppo veramente interessato. Ò almeno, così crediamo nel mio paese, sulla Terra. E naturalmente spero di imparare nuovi esercizi da queste persone gentili che mi hanno accolta qui.»

Il Controllore non mostrò alcuna reazione se non un attimo di pausa, poi si voltò e seguì le donne in blu e marrone chiaro che risalivano la rampa. Le donne uscirono. Lui si girò e rimase appena dentro la porta, a osservare.

«Continuate!» gridò il mutilato. «Uno! Due! Uno! Due!» Tutti scalciarono e tirarono pugni e saltarono per i cinque o dieci minuti successivi. All’inizio, la furia di Sutty era autentica, poi sbollì, grazie a quegli stupidi esercizi, e avrebbe voluto ridere, ridere per liberarsi dello shock con una risata.

Spinse sulla rampa la carrozzella di Iziezi, trovò le proprie scarpe nella fila di scarpe. Il Controllore era ancora là. Lei gli sorrìse. «Dovresti unirti a noi» gli disse.

Lo sguardo del Controllore era impersonale, di valutazione, non denotava alcuna reazione. L’Azienda la stava esaminando.

Sutty si accorse di mutare espressione, che i propri occhi lo squadravano con un misto di sdegno e di incredulità, come se vedessero qualcosa di insignificante, grossolano, un mostriciattolo. Sbagliato! Sbagliato! Ma l’aveva fatto. Gli passò accanto e uscì nell’aria fredda della sera.

Tenne stretto lo schienale della carrozzella per aiutare Iziezi a zigzagare tra un sobbalzo e l’altro lungo la discesa, e per non pensare all’assurdo impeto di odio che il Controllore aveva suscitato in lei. «Adesso mi rendo conto che hai ragione a lamentarti che il terreno pianeggiante scarseggia» disse.

«Non esiste… qui… il terreno pianeggiante» precisò Iziezi, parlando a scatti. Rimanendo aggrappata, alzò un attimo una mano verso l’enorme mole verticale del Silong, che scintillava con bagliori bianchi e dorati sopra i tetti e le colline già immersi nel crepuscolo.

Nell’atrio della locanda, Sutty disse: «Spero di poter ancora venire presto al vostro corso di esercizio fisico».

Iziezi fece un gesto che avrebbe potuto essere di garbato assenso o di scusa sconsolata.

«Preferivo la parte più tranquilla» continuò Sutty. Non vedendo alcun sorriso né ottenendo risposta, aggiunse: «Mi piacerebbe davvero imparare quei movimenti. Sono bellissimi. Davano la sensazione di avere tutti un significato preciso».

Iziezi restò ancora in silenzio.

«Per caso, c’è un libro che ne parli, un libro che io possa studiare?» La domanda sembrava esageratamente cauta, e nel medesimo tempo incredibilmente sconsiderata.

Iziezi indicò il soggiorno comune, dove un monitor videoquasivero, spento, occupava un angolo della stanza. Accanto a esso, erano ammucchiate pile di nastri distribuiti dall’Azienda. Oltre ai manuali, di cui ognuno riceveva una nuova serie ogni anno, nuovi nastri venivano spesso consegnati a tutti i produttori-consumatori, nastri informativi, educativi, ammonitori, ispiratori. Dipendenti e studenti venivano esaminati spesso sul contenuto di quei nastri in sessioni ordinarie e straordinarie, al lavoro e all’università. «La malattia non giustifica l’ignoranza!» dichiarava la voce profonda dell’Azienda nei video di lavoratori ospedalizzati che seguivano entusiasti un quasivero sullo stampaggio della plastica. «La ricchezza è il lavoro e il lavoro è ricchezza!» cantava il coro del video istruttivo su Capitale e Lavoro. Gran parte della letteratura studiata da Sutty era costituita da materiale simile, nel consueto stile poetico e ispiratore. Sutty guardò con malevolenza le pile di nastri.

«Il manuale sanitario» mormorò incerta Iziezi.

«Pensavo a qualcosa da leggere nella mia camera di notte. A un libro.»

«Ah!» La mina esplose vicinissima questa volta. Poi, silenzio. «Yoz Sutty» sussurrò la disabile, «i libri…»

Silenzio, greve.

«Non voglio esporti a nessun rischio.»

Sutty si ritrovò — che assurdità — a mormorare.

Iziezi si strinse nelle spalle. L’alzata di spalle significava: "Rischio? E allora? Tutto è un rischio".

«Pare che il Controllore mi stia seguendo.»

Iziezi fece un gesto che esprimeva: "No, no". «Vengono spesso al corso. Abbiamo una persona che sorveglia la strada, accende le luci. Allora noi…» Stancamente, diede dei pugni all’aria. Uno! Due!

«Dimmi quali sono le pene, yoz Iziezi.»

«Per chi fa i vecchi esercizi? Una multa. Forse la revoca della licenza. Forse basta andare alla Prefettura o al Liceo e studiare i manuali.»

«E per un libro? Per chi possiede un libro, lo legge?»

«Un… vecchio libro?»

Sutty annuì.

Iziezi era restia a rispondere. Abbassò lo sguardo. Infine, sussurrando, disse: «Forse si va incontro a molti guai».

La disabile era immobile sulla carrozzella. Sutty, in piedi accanto a lei. Nella strada, l’oscurità era scesa del tutto. Sopra i tetti, la barriera del Silong rosseggiava opaca con uno sfolgorio aranciato. Più in alto, remota e fulgida, la vetta brillava ancora in un tripudio di riflessi dorati.

«So leggere la vecchia scrittura. Voglio imparare le antiche usanze. Però non voglio che tu perda la licenza della locanda, yoz Iziezi. Mandami da qualcuno che non sia l’unico sostegno di suo nipote.»

«Akidan?» disse Iziezi con nuovo vigore. «Oh, lui ti porterebbe fino alla Radice Madre!» Poi batté una mano sul bracciolo della carrozzella e portò l’altra alla bocca. «Sono tante le cose proibite» disse da dietro le dita, rivolgendo a Sutty un’occhiata un po’ maliziosa.

«E dimenticate?»

«La gente ricorda… La gente sa, yoz. Ma io non so nulla. Mia sorella sapeva. Era istruita. Io, no. Conosco delle persone che sono… istruite… Ma, fin dove vuoi arrivare?»

«Fin dove le mie guide mi conducono benevole» rispose Sutty. Non era una frase presa da Esercizi avanzati di grammatica per selvaggi, ma dal frammento di un libro, la pagina danneggiata con l’immagine di un uomo che pescava da un ponte e quattro versi di una poesia:

Dove le mie guide mi conducono benevole
io vado, le seguo leggero,
e non ci sono orme
nella polvere dietro di noi.
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