— Oh, che bello! — disse la bambina. — Che cos’è?
— Bisogna appenderlo al soffitto; c’è un chiodo? Il portamantello potrà andare bene, finché non avrò preso un chiodo ai Rifornimenti. Sai chi l’ha fatto, Sedik?
— No… L’hai fatto tu.
— L’ha fatto lei. La madre. Lei. — Si voltò verso Takver. — È il mio favorito, quello che stava sopra la scrivania. Ho dato gli altri a Bedap. Non li avrei certamente lasciati lì per la vecchia, come si chiama, Mamma Invidia, la nostra vicina di corridoio.
— Oh… Bunub! Da anni non pensavo più a lei! — Takver rise, con un fremito. Guardò la scultura mobile come se ne avesse paura.
Sedik fissava attentamente la scultura che ruotava senza far rumore alla ricerca del proprio equilibrio. — Mi piacerebbe — disse infine, facendo attenzione alle parole, — poterla condividere per una notte, sopra il letto dove dormo in dormitorio.
— Te ne farò una, cara. Per tutte le notti.
— Sei davvero capace di farle, Takver?
— Be’, una volta ero capace. Penso di essere ancora capace di farne una per te. — Le lacrime erano ora pienamente visibili negli occhi di Takver. Shevek l’abbracciò. Entrambi erano ancora nervosi, tesi. Sedik li osservò per un istante mentre erano abbracciati, con uno sguardo calmo, curioso, poi ritornò a guardare la Occupazione di uno Spazio Disabitato.
Quando erano soli, la sera, Sedik era spesso l’oggetto dei loro discorsi. Takver era per alcuni aspetti eccessivamente attenta alla bambina, per mancanza di altri rapporti, e il suo forte buon senso era oscurato da ambizioni e ansie materne. Questo non era naturale per lei; né la competitività né la protettività erano forti motivazioni nella vita degli anarresiani. Ella era lieta di dar voce alle proprie preoccupazioni e di sbarazzarsi di esse, cosa che le era finalmente permessa dalla presenza di Shevek. Le prime sere fu quasi sempre lei a parlare, ed egli la ascoltò come avrebbe potuto ascoltare della musica o il suono dell’acqua corrente, senza cercare di rispondere. Negli ultimi quattro anni, Shevek non aveva parlato molto; aveva perso l’abitudine della conversazione. Lei lo liberò da quel silenzio, come aveva sempre fatto. Più tardi fu quasi sempre lui a parlare, anche se continuò a dipendere da lei per le risposte.
— Ricordi Tirin? — le chiese una notte. Faceva freddo, era arrivato l’inverno, e la stanza, la più lontana dal bruciatore del domicilio, non si riscaldava mai bene, neppure con tutta la grata aperta. Avevano preso i materassi delle due predelle e stavano entrambi, ben infagottati, sulla predella più vicina alla grata. Shevek indossava una camicia molto vecchia, stinta, per riscaldarsi il petto, poiché amava rimanere seduto sul letto. Takver, che non aveva niente addosso, era infilata sotto le coperte fino alle orecchie. — Che ne è della coperta arancione? — lei chiese.
— Che proprietarista! L’ho lasciata.
— A Mamma Invidia? Peccato. Non sono una proprietarista. Sono soltanto sentimentale. È stata la prima coperta sotto la quale abbiamo dormito insieme.
— No, non è stata quella. Mi pare che abbiamo usato una coperta anche sui Ne Theras.
— Se l’abbiamo usata, non la ricordo — disse Takver, ridendo. — Di chi mi chiedevi?
— Tirin.
— Non ricordo.
— All’Istituto Regionale. Un ragazzo bruno, dal naso camuso…
— Oh, Tirin! Certamente. Pensavo ad Abbenay.
— L’ho visto, nel Sudovest.
— Hai visto Tirin? Come stava?
Per un certo tempo, Shevek non disse nulla, limitandosi a passare il dito sulle cuciture della coperta. — Ricordi cosa Bedap ci disse di lui?
— Che continuava a ricevere assegnazioni kleggich, e ad essere trasferito, e che alla fine è andato all’Isola Segvina, no? E lì Bedap perse traccia di lui.
— Hai visto il dramma che ha messo in scena, quello che l’ha messo nei guai?
— Alla Festa dell’Estate, dopo che tu partisti? Oh, sì. Non ricordo bene, è passato tanto tempo. Era una sciocchezza. Spiritosa, però… Tirin era spiritoso. Ma era una sciocchezza. Parlava di un urrasiano, già. Questo urrasiano si nasconde in una vasca idroponica sul mercantile della Luna, e respira con una cannuccia e mangia le radici delle piante. Te l’ho detto, era una stupidaggine! E così, riesce ad arrivare clandestinamente su Anarres. E allora gira da tutte le parti, cercando di comprare cose ai depositi e di venderle alla gente, e mettendo da parte pepite d’oro finché ne ha così tante che non riesce neppure a muoversi. Così deve rimanere seduto dove si trova, e costruisce un palazzo e si fa chiamare il Padrone di Anarres. E c’era una scena divertentissima dove lui e una donna vogliono copulare, e lei è aperta e pronta, ma lui non riesce a fare niente se prima non le dà le pepite d’oro, per pagarla. E lei non le vuole accettare. Faceva proprio ridere, con lei per terra che agita le gambe e lui che si lancia su di lei, e poi salta indietro come se l’avesse morsicato, dicendo: «Non devo! Non è morale! Non è un buon commercio!». Povero Tirin, era così simpatico, così pieno di vita.
— Ha fatto lui la parte dell’urrasiano?
— Sì. Ed era meraviglioso.
— Mi ha fatto vedere il dramma, varie volte.
— Dove l’hai incontrato, a Valle Grande?
— No, prima, a Gomito. Era lo spazzino della fabbrica.
— E aveva scelto lui quell’incarico?
— Non credo che Tirin avesse ancora la facoltà di scegliere, ormai… Bedap ha sempre pensato che sia stato forzato ad andare a Segvina, che gli abbiano fatto richiedere le cure psicologiche mediante pressioni e minacce. Io non lo so. Quando l’ho visto, vari anni dopo le cure, era un uomo distrutto.
— Pensi che a Segvina gli abbiano fatto qualcosa che…
— Non lo so. Penso che il Manicomio cerchi davvero di offrire un riparo, un rifugio. A giudicare dalle loro pubblicazioni, devono essere degli altruisti, come minimo. Non credo che abbiano spinto Tirin nel baratro.
— Ma che cos’è stato, allora, a spezzarlo? Semplicemente il fatto di non trovare un’assegnazione che gli piacesse?
— È stata la sua commedia a spezzarlo.
— La commedia? Il chiasso che quei vecchi stronzi hanno fatto per colpa sua? Oh, ma senti, per diventare pazzo a causa di quelle prediche moralistiche, devi già essere pazzo in partenza. Bastava che le ignorasse.
— Tirin era già pazzo in partenza. Per il metro della nostra società.
— Cosa vuoi dire?
— Be’, penso che Tirin sia un artista nato. Non un artigiano: un creatore. Un inventore-distruttore, il tipo che deve prendere ogni cosa e girarla al contrario, rovesciarla. Un autore di satire, un uomo che giudica con la rabbia.
— Era davvero così buono, il suo dramma? — chiese Takver, ingenuamente, tirando fuori di un paio di centimetri la testa dalle coperte e studiando il profilo di Shevek.
— No, non credo. Dev’essere stato divertente, sulla scena. E aveva soltanto vent’anni, in fin dei conti, quando l’ha scritto. Continua sempre a riscriverlo. Non ha mai scritto altro.
— Continua a scrivere la stessa commedia?
— Continua a scrivere la stessa commedia.
— Uhg — disse Takver, con pietà e disgusto.
— Ogni due decadi veniva da me e me la faceva leggere. E io la leggevo o facevo finta di leggerla e cercavo di parlarne con lui. Egli desiderava disperatamente parlarne, ma non riusciva a farlo. Aveva troppa paura.
— Paura di che? Non capisco.
— Di me. Di tutti. Dell’organismo sociale, della razza umana, della fratellanza che lo aveva rifiutato. Quando un uomo si sente solo contro tutto il resto, ha ben ragione di essere spaventato.
— Vuol dire che soltanto perché alcune persone hanno definito immorale la sua commedia e hanno detto che non bisognava dargli un incarico di insegnamento, egli ha ritenuto che tutti fossero contro di lui? Mi pare un po’ una sciocchezza!
— Ma chi c’era a tenere le sue parti?
— C’erano Bedap… tutti i suoi amici.
— Ma egli li perse. Venne assegnato in un’altra zona.