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— Non so chi faccia i lavori sporchi qui — disse. — Non vedo mai nessuno che li faccia. È strano. Chi li fa? Perché li fa? Sono pagati di più?

— I lavori pericolosi, a volte. Per i lavori semplicemente manuali, no. Sono pagati meno.

— E perché li fanno, allora?

— Perché una paga bassa è migliore di niente paga — disse Oiie, e l’amarezza della sua voce fu pienamente avvertibile. La moglie cominciò a dire qualcosa, nervosamente, per cambiare argomento, ma Oiie continuò: — Mio nonno faceva il cameriere. Ha lavato pavimenti e cambiato lenzuola sporche in un albergo per cinquant’anni. Dieci ore al giorno, sei giorni la settimana. Lo faceva perché lui e la famiglia potessero mangiare. — Oiie s’interruppe bruscamente, e rivolse a Shevek il suo vecchio sguardo di riserbo, di diffidenza, e poi, quasi con aria di sfida, fissò la moglie. Ella non sostenne il suo sguardo. Sorrise e disse con voce nervosa, infantile: — Il padre di Demaere ebbe molto successo nella vita. Quando morì, possedeva quattro compagnie. — Aveva il sorriso di una persona in pena, e le sue mani sottili e abbronzate si stringevano fortemente una sull’altra.

— Non credo che abbiate uomini di successo, su Anarres — disse Oiie, con pesante sarcasmo. Poi giunse il cuoco per cambiare i piatti, e Oiie cessò immediatamente di parlare. Il bambino Ini, come se sapesse che i discorsi seri non sarebbero ripresi nel corso della permanenza del servitore nella stanza, disse: — Mamma, il signor Shevek può vedere la mia lontra alla fine del pranzo?

Quando tornarono in salotto, Ini ebbe il permesso di portare il suo animaletto: una lontra di terra non ancora completamente cresciuta, un animale molto comune su Urras. Erano state addomesticate, spiegò Oiie, fin dall’epoca preistorica, prima per servirsene per il riporto dei pesci, poi come animale da salotto. La creatura aveva gambe corte, schiena flessuosa e arcuata, pelame marrone scuro e lucente. Era il primo animale non in gabbia visto da Shevek a breve distanza, e aveva meno paura di quanta ne avesse Shevek. I denti bianchi e aguzzi erano impressionanti. Allungò la mano con cautela per strofinare la schiena dell’animale, come gli suggeriva Ini. La lontra si rizzò sulle zampe posteriori e lo fissò. I suoi occhi erano neri, spruzzati d’oro, intelligenti, curiosi, innocenti. — Ammar — bisbigliò Shevek, colpito da quello sguardo al di là del golfo dell’essere… — Fratello.

La lontra emise un suono, ritornò sulle quattro zampe ed esaminò con interesse le scarpe di Shevek.

— La trova simpatico — disse Ini.

— Anch’io — rispose Shevek, un po’ tristemente. Ogni volta che vedeva un animale, il volo degli uccelli, lo splendore degli alberi autunnali, la tristezza scendeva in lui e dava al piacere un orlo tagliente. Egli non pensava consciamente a Takver in quei momenti, non pensava alla sua assenza. Piuttosto, era come se Takver fosse presente anche se egli non pensava a lei. Era come se alla bellezza e alla bizzarria delle bestie e delle piante di Urras fosse stato affidato un messaggio per lui da parte di Takver, che non le avrebbe mai viste, i cui antenati per sette generazioni non avevano toccato la pelliccia tiepida di un animale o visto un frullo d’ali all’ombra degli alberi.

Passò la notte in una camera da letto sotto il cornicione. Era fredda, cosa, che gli piacque dopo l’eterno surriscaldamento delle stanze dell’Università, e molto alla buona: il letto, gli armadi dei libri, una cassapanca, una sedia e un tavolo di legno verniciato. Era come a casa, pensò, dimenticando l’altezza del letto e la morbidezza del materasso, le fini coperte di lana e le lenzuola di seta, le statuine di avorio sulla cassapanca, le rilegature in cuoio dei libri, e il fatto che la stanza, e ogni cosa in essa contenuta, e la casa di cui faceva parte, e il terreno su cui la casa sorgeva, erano proprietà privata, proprietà di Demaere Oiie, anche se egli non l’aveva costruita e non ne lavava i pavimenti. Shevek lasciò perdere queste fastidiose discriminazioni. Era una bella stanza, e non era poi tanto diversa da una stanza singola di un domicilio.

Dormendo in quella stanza, egli sognò di Takver. Sognò che era con lui nel letto, che le sue braccia erano intorno a lui, i loro corpi si stringevano… ma in che stanza, in che stanza erano? Dove erano? Erano sulla Luna insieme, faceva freddo, e camminavano accanto. Era un posto piatto, la Luna, tutto coperto di neve bianco-azzurrina, sebbene la neve fosse sottile e si potesse facilmente scostarla col piede per mostrare il luminoso terreno bianco. La Luna era morta, era un luogo morto. — Non è veramente così — egli diceva a Takver, accorgendosi che era intimorita. Stavano camminando verso qualcosa, una linea lontana, di una materia che pareva mobile e luccicante come plastica, una remota, quasi invisibile barriera che attraversava il bianco pianoro innevato. Nel suo cuore, Shevek aveva paura di avvicinarsi, ma disse ugualmente a Takver: — Presto lo raggiungeremo. — Lei non gli rispose.

CAPITOLO 6

Quando Shevek venne rimandato a casa dopo una decade trascorsa all’ospedale, il suo vicino della Stanza 45 venne a trovarlo. Era un matematico, molto alto e allampanato. Aveva uno strabismo divergente, cosicché non potevi mai essere certo se fosse lui a guardare te, o tu a guardare lui. Egli e Shevek coesistevano amichevolmente, a fianco a fianco nel dormitorio dell’Istituto, ormai da un anno, senza essersi mai rivolti una frase completa.

Desar ora entrò e fissò Shevek (o i punti al suo fianco). - Niente? — chiese.

— Mi sento bene, grazie.

— Portarti il pasto dal refettorio?

— Col tuo? — disse Shevek, influenzato dallo stile telegrafico di Desar.

— D’accordo.

Desar portò un vassoio con due pasti dal refettorio dell’Istituto, e mangiarono insieme nella stanza di Shevek. Lo fece nuovamente, mattino e sera, per tre giorni, finché Shevek non si sentì nuovamente in grado di muoversi. Era difficile capire perché Desar lo facesse. Non era un tipo amichevole, e i legami di fratellanza parevano significare poco, per lui. Una delle ragioni per le quali si teneva lontano dalla gente era quella di nascondere la propria disonestà; egli era stupefacentemente pigro o francamente proprietarista, poiché la Stanza 45 era piena di cose che non aveva diritto, o motivo, di tenere: piatti della mensa, libri di biblioteche, una scatola di arnesi per scolpire il legno, presi a un deposito di forniture per artigiani, un microscopio proveniente da qualche laboratorio, otto diverse coperte, un armadio pieno di abiti, alcuni dei quali, chiaramente, non erano della misura di Desar né lo erano mai stati, altri che dovevano essere le cose che metteva addosso quando aveva otto anni, dieci. Pareva ch’egli si recasse nei depositi e nei magazzini a prendere le cose a manciate, indipendentemente dal fatto che gli occorressero o no. — Perché tieni tutte quelle cianfrusaglie? — gli chiese Shevek, la prima volta che venne ammesso nella stanza. Desar fissò accanto a lui. — Boh, la roba si accumula da sola… — rispose, vagamente.

Il campo scelto da Desar nelle matematiche era talmente esoterico che nessuno, tanto nell’Istituto quanto nella Federativa di Matematica, avrebbe potuto controllare con coscienza di causa i suoi progressi. E questo era esattamente il motivo per cui Desar l’aveva scelto. Egli aveva dato per assodato che i motivi di Shevek fossero identici. — Diavolo — disse una volta, - lavoro? Bell’incarico, qui. Sequenza, Simultaneità, sterco. — Alcune volte Shevek provava simpatia per Desar, altre lo detestava, per gli stessi motivi. Rimase con lui, però, e deliberatamente, come parte della sua decisione di cambiare vita.

La malattia gli aveva fatto comprendere che se avesse cercato di andare avanti da solo sarebbe andato incontro a un crollo totale. Lo vedeva in termini morali, e si giudicava senza pietà. Aveva continuato a tenersi per se stesso, contrariamente all’imperativo etico della fratellanza. Shevek a ventun anni non era esattamente un pedante, con la sua moralità appassionata e severa; ma essa combaciava ancora con una matrice rigida, l’Odonianesimo semplicistico insegnato ai bambini da adulti mediocri, una predica interiorizzata.

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