Oiie, a casa, era un uomo completamente diverso. Lo sguardo reticente scompariva dalla sua faccia; non strascicava le parole. La famiglia lo trattava con rispetto, ma nel rispetto c’era reciprocità. Shevek aveva ascoltato in abbondanza le opinioni di Oiie sulle donne, e si sorprese nel vedere che trattava la moglie con cortesia, perfino con delicatezza. «Questa è cavalleria» pensò Shevek, che aveva imparato recentemente la parola, ma presto si disse che era qualcosa di migliore. Oiie era affezionatissimo alla moglie, e ne aveva la massima fiducia. Si comportava con lei e con i bambini nel modo in cui avrebbe potuto comportarsi un anarresiano. In effetti, a casa, egli d’un tratto si rivelava come un tipo semplice e fraterno di uomo, un uomo libero.
Parve a Shevek un ambito di libertà molto piccolo, una famiglia molto piccola, ma si sentiva così bene, così libero anch’egli, che non provava desiderio di criticare.
In una pausa della conversazione, il bambino più piccolo disse con la sua voce chiara, piccola: — Il signor Shevek non sa bene le buone maniere.
— Come mai? — chiese Shevek, prima che la moglie di Oiie facesse in tempo a sgridare il bambino. — Che cosa ho fatto?
— Non ha detto grazie.
— E di che cosa?
— Quando le ho passato il piatto dei sottaceti.
— Ini! Stai bravo!
Sedik! Non egoizzare! Il tono era esattamente lo stesso.
— Pensavo che tu li stessi dividendo con me. Erano invece un dono? Noi diciamo grazie soltanto per i doni, al mio paese. Ci dividiamo le altre cose senza neppure parlarne, sai. Vuoi che ti ridia i sottaceti?
— No, non mi piacciono — disse il bambino, alzando gli occhi scuri, molto luminosi, sul volto di Shevek.
— Questo rende particolarmente agevole condividerli — disse Shevek. Il bambino maggiore fremeva dal desiderio represso di pizzicare Ini, ma Ini si mise a ridere, mostrando i piccoli denti bianchi. Dopo qualche tempo, nel corso di una pausa, disse con voce bassa, piegandosi verso Shevek: — Le piacerebbe vedere la mia lontra?
— Certo.
— È nel giardino. Mamma l’ha messa fuori perché pensava che potesse darle fastidio. Alcuni grandi non amano gli animali.
— A me piace vederli. Non abbiamo animali, nel mio paese.
— No? — disse il bambino maggiore, fissandolo ad occhi spalancati. — Babbo! Il signor Shevek dice che non hanno animali!
Anche Ini lo fissò ad occhi spalancati. — Ma che cosa avete?
— Gente. Pesci. Vermi. E alberi di holum.
— Che cosa sono gli alberi di holum?
La conversazione andò avanti per mezz’ora. Era la prima volta che a Shevek era stato chiesto, su Urras, di descrivere Anarres. I bambini rivolgevano le domande, ma i genitori ascoltavano con interesse. Shevek si tenne scrupolosamente lontano dal modello etico; non era venuto per fare opera di proselitismo sui figli del proprio ospite. Semplicemente, spiegò loro com’era la Polvere, che aspetto aveva Abbenay, che tipo di abiti si portava, che cosa faceva la gente quando voleva un nuovo abito, che cosa facevano i bambini a scuola. Quest’ultima parte divenne propaganda, nonostante le sue intenzioni. Ini e Aevi erano affascinati dalla sua descrizione di una scuola che comprendeva giardinaggio, falegnameria, recupero, tipografia, riparazione di impianti idraulici, riparazione della strada, drammaturgia, e tutte le altre occupazioni della comunità degli adulti, e dalla sua ammissione che nessuno veniva mai punito per alcunché.
— Anche se a volte — egli disse, — ti fanno andare avanti per conto tuo per un certo periodo di tempo.
— Ma che cos’è — disse d’improvviso Oiie, come se la domanda, trattenuta per molto tempo, gli venisse fuori sotto pressione, — che cos’è che tiene in ordine la gente? Perché non si derubano e non si ammazzano tutti?
— Nessuno possiede alcunché che si possa rubare. Se uno vuole una cosa, la prende dal deposito. E per quanto riguarda la violenza, be’, non saprei, Oiie; lei pensa che proverebbe desiderio di uccidermi, ordinariamente? E se lo provasse, pensa che basterebbe una legge a fermarla? La coercizione non è il mezzo più efficace per ottenere l’ordine.
— D’accordo, ma come convincete la gente a fare i lavori sporchi?
— Che lavori sporchi? — chiese la moglie di Oiie, che aveva perso il filo.
— Raccogliere la spazzatura, seppellire i morti — disse Oiie; Shevek aggiunse: — Scavare il mercurio — e per poco non disse: «Lavorare la merda» ma ricordò il tabù iotico sulle parole scatologiche. Aveva meditato, fin dai primi tempi della sua permanenza su Urras, sul fatto che gli urrasiani vivevano tra montagne di escremento, ma non nominavano mai la merda.
— Be’, li facciamo tutti. Ma nessuno è costretto a farli per molto tempo, a meno che non ami quei lavori. Un giorno ogni decade, il comitato manutenzione della comunità o il comitato di isolato o chi altri ha bisogno può chiedere a una persona di unirsi a quei lavori; fanno delle liste a rotazione. Gli incarichi di lavoro spiacevoli, o quelli pericolosi come le miniere di mercurio e le macine, di solito durano soltanto mezzo anno.
— Ma allora l’intero personale sarà costituito di persone che stanno ancora imparando il lavoro.
— Sì. Non è molto efficiente, ma che altro si può fare? Non si può dire a un uomo di lavorare in un incarico che finirà per storpiarlo o per ucciderlo in pochi anni. Perché dovrebbe accettare?
— E può rifiutare l’ordine?
— Non è un ordine, Oiie. Egli va al Div-Lab… l’ufficio per la divisione del lavoro… e dice: «Voglio fare questo e quest’altro, che cosa potete darmi?» E laggiù gli dicono dove ci sono posti vuoti.
— Ma allora, come mai la gente accetta di fare i lavori sporchi? Perché accetta il ciclo del giorno su dieci?
— Perché quei lavori sono fatti insieme… e per altre ragioni. Deve sapere, la vita su Anarres non è ricca come qui. Nelle piccole comunità non ci sono molti intrattenimenti, e c’è un mucchio di lavoro da fare. Così, se uno lavora, per esempio, a un telaio meccanico, ogni dieci giorni è piacevole uscire all’aperto e posare un tubo o arare un campo, con un gruppo differente di persone… E poi c’è la sfida. Qui voi pensate che l’incentivo per il lavoro sia finanziario, il bisogno di denaro o il desiderio di profitto, ma dove non c’è denaro i veri motivi sono più chiari, forse. La gente ama fare le cose. Ama farle bene. La gente si assume i lavori duri, pericolosi, perché trae motivo d’orgoglio dal farli, perché può… «egoizzare», noi lo chiamiamo… mettersi in mostra?… con i più deboli. «Ehi, guardate qua, pivelli, come sono forte!» Capite? Una persona ama fare le cose che sa fare bene… In realtà, si tratta della questione dei mezzi e dei fini. Dopotutto, il lavoro viene fatto per amore del lavoro. È il piacere durevole della vita. La coscienza individuale lo sa. E anche la coscienza sociale, l’opinione dei vicini. Non c’è altra ricompensa, su Anarres, altra legge. Il proprio piacere, e il rispetto dei propri vicini. Nient’altro. Ed essendo così, vedete come l’opinione dei vicini divenga una forza davvero potente.
— Nessuno vi si oppone mai?
— Forse non abbastanza spesso — disse Shevek.
— Ciascuno lavora così duramente, dunque? — chiese la moglie di Oiie. — Che cosa succede a un uomo che, semplicemente, non vuole cooperare?
— Be’, si trasferisce. Gli altri si stancano di lui, sapete. Si fanno beffe di lui, o lo trattano male, lo battono; in una piccola comunità, possono mettersi d’accordo nel togliere il suo nome dalla lista dei pasti, in modo che debba cucinare e mangiare da solo; questo è umiliante. Così si trasferisce, e resta per un po’ di tempo in un altro luogo, e poi magari si trasferisce di nuovo. Alcuni continuano a farlo per tutta la vita. Nuchnibi, vengono chiamati. Io sono una specie di nuchnib. Sono qui perché sono fuggito dal mio incarico di lavoro. Mi sono spostato più degli altri. — Shevek parlava con tranquillità; se ci fu amarezza nella voce, i bambini non riuscirono a discernerla, né gli adulti a spiegarsela. Ma un breve silenzio fece seguito alle sue parole.