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Shevek rise; l’allegria di Atro gli dava piacere. Ma il vecchio era serio. Picchiò sul braccio di Shevek, e, aggrottando le sopracciglia e torcendo le labbra come sempre faceva quando parlava con convinzione, disse: — Spero che tu provi gli stessi sentimenti, mio caro. Lo spero sinceramente. Ci sono molte cose ammirevoli, ne sono certo, nella tua società, ma essa non vi insegna ad operare delle distinzioni… cosa che, dopotutto, è la migliore che ci insegni la civiltà. Non voglio che quei maledetti stranieri giungano a fare breccia in te servendosi dei tuoi concetti sulla fratellanza e l’assistenza mutua e così via. Ti rovesceranno addosso interi fiumi di «umanità comune» e «lega di tutti i mondi» e così via, e mi spiacerebbe che li trangugiassi interi. La legge dell’esistenza è la lotta, la competizione, l’eliminazione del debole… una guerra spietata per la sopravvivenza. E io desidero che siano i migliori a sopravvivere. Il tipo di umanità che conosco. I Cetiani. Noi due: Urras e Anarres. Noi siamo davanti a loro, ora come ora; a tutti quegli Hainiti e Terrestri e come altro si chiamano, e dobbiamo continuare a stare in testa. Sono stati loro a portarci il viaggio interstellare, ma le navi interstellari che noi costruiamo oggi sono migliori delle loro. Quando arriverai a pubblicare la tua teoria, spero sinceramente che tu pensi al tuo dovere nei riguardi del tuo popolo, della tua razza. A quel che significa la lealtà, e a chi è dovuta. — Le facili lacrime della vecchiaia erano sorte negli occhi quasi ciechi di Atro. Shevek posò la mano sul braccio dell’uomo più anziano, per rassicurarlo, ma non disse nulla.

— Anch’essi avranno la Teoria, naturalmente. A suo tempo. E meritano di averla. La verità scientifica si diffonderà, non puoi nascondere il sole sotto un sasso. Ma prima che la abbiano, voglio che la paghino! Voglio che noi abbiamo il posto che ci spetta. Voglio il rispetto: ed è questo, ciò che tu ci puoi ottenere. Il trasporto istantaneo… se noi divenissimo padroni del trasporto istantaneo, il loro motore interstellare non varrebbe più un fagiolo. E non è il denaro che voglio, lo sai. Voglio che la superiorità della scienza Cetiana sia riconosciuta, la superiorità della mente Cetiana. Se ci dev’essere una civiltà interstellare, allora, per Dio, non voglio che il mio popolo sia un suo membro di bassa casta! Noi dobbiamo entrarci come dei grandi signori, con un grande dono nelle mani… così deve essere. Bene, bene, a volte mi scaldo un po’ su queste cose. E, detto per inciso, come va il tuo libro?

— Ho lavorato sull’ipotesi gravitazionale di Skask. Ho l’impressione che si sbagli nell’usare soltanto equazioni differenziali parziali.

— Ma anche il tuo ultimo articolo era sulla gravità. Quando ti deciderai a dedicarti alla cosa importante?

— Sai che per noi Odoniani i mezzi sono il fine — disse Shevek, in tono leggero. — Inoltre, non posso presentare una teoria del tempo che trascuri la gravità, non ti pare?

— Vuoi dire che ce la dai a pezzi e bocconi? — chiese Atro, con sospetto. — Non mi era venuto in mente. Farò meglio a riguardare quel tuo ultimo articolo. Alcune sue parti non mi erano molto chiare. Mi si stancano così tanto gli occhi, di questi tempi. Credo che quel maledetto affare ingranditore proiettore che devo usare per leggere si sia guastato. Non mi pare che proietti chiaramente le parole.

Shevek fissò il vecchio fisico con rimorso e affezione, ma non gli disse altro sullo stato della sua teoria.

Inviti a ricevimenti, dediche, inaugurazioni e così via venivano recapitati a Shevek quasi ogni giorno. Egli si recò ad alcuni, poiché era venuto su Urras con una missione, e doveva cercare di svolgerla: doveva promuovere l’idea di fraternità, doveva rappresentare, con la sua stessa persona, la solidarietà dei due Pianeti. Egli parlava, e la gente lo ascoltava e diceva: — Ha proprio ragione.

Si chiese perché il governo non gli impedisse di parlare. Chifoilisk doveva avere esagerato, in vista dei propri interessi, la portata del controllo e della censura che potevano esercitare. Egli parlava parole di pura anarchia, ed essi non lo fermavano. Ma avevano davvero bisogno di fermarlo? Gli pareva ogni volta di parlare alle stesse persone: ben vestite, ben nutrite, beneducate, sorridenti. Era quello l’unico tipo di persone esistente su Urras? — È il dolore, che porta gli uomini ad unirsi — diceva Shevek, ritto davanti a loro, ed essi annuivano e dicevano: — Ha proprio ragione.

Cominciò a odiarli, e, quando se ne accorse, smise da un giorno all’altro di accettare i loro inviti.

Ma questo era accettare il fallimento e accrescere il suo isolamento. Egli non stava facendo ciò che era venuto a fare. Non erano stati gli altri a isolarlo, si disse; era stato — come sempre — egli stesso a isolarsi da loro. Egli era solo, soffocantemente solo, tra tutte le persone che vedeva ogni giorno. Il guaio era che non era in contatto. Egli sentiva di non avere toccato nulla, nessuno, su Urras in tutti quei mesi.

Nel Refettorio degli Anziani di Facoltà, a tavola, una sera disse: — Sapete, non so come vivete, qui. Vedo le case private, sì, ma dall’esterno. Dall’interno conosco solo la vostra vita non privata… sale di riunione, refettori, laboratori…

Il giorno successivo, Oiie, un po’ rigidamente, chiese a Shevek se voleva venire a cena e fermarsi per la notte, il prossimo fine settimana, a casa sua.

La casa era situata ad Amoeno, un paese a poche miglia da Ieu Eun, ed era, per il metro urrasiano, una modesta casa della classe media, forse più antica del normale. Era stata costruita circa trecento anni prima, in pietra, con stanze dai pannelli di legno. Il doppio arco caratteristico iotico compariva nelle finestre e nelle porte. Una relativa mancanza di mobili piacque subito a Shevek: le stanze avevano un aspetto austero, spazioso, con le loro grandi distese di pavimenti lucidi e profondi. Si era sempre sentito a disagio fra le decorazioni eccessive e l’arredo degli edifici pubblici in cui si tenevano i ricevimenti, le inaugurazioni e così via. Gli urrasiani avevano molto gusto, ma spesso questo gusto pareva in conflitto con un impulso verso l’ostentazione, verso la spesa elevata. L’origine naturale, estetica del desiderio di possedere cose veniva nascosta, pervertita dalle pressioni economiche e competitive, che a loro volta emergevano sotto forma di qualità delle cose: così tutto ciò che raggiungevano era una specie di meccanica prodigalità. Qui invece c’era della grazia, raggiunta mediante la limitazione.

Un servitore prese loro il cappotto all’ingresso. Giunse la moglie di Oiie, a salutare Shevek, dalla cucina seminterrata, dove stava dando ordini al cuoco.

Parlando prima di pranzo, Shevek scoprì di rivolgere la parola quasi esclusivamente alla donna, con un’amichevolezza, un desiderio di esserle simpatico, che sorprese lui per primo. Ma era così bello parlare di nuovo con una donna! Niente di strano che la propria esistenza gli fosse parsa isolata, artificiale, tra uomini, sempre tra uomini, priva della tensione e dell’attrazione della differenza sessuale. E Sewa Oiie era attraente. Osservando le linee delicate della nuca e delle tempie, egli dimenticò le proprie obiezioni alla moda urrasiana di radere la testa femminile. Sewa era reticente, piuttosto timida; egli cercò di farla sentire a proprio agio con lui, e rimase assai compiaciuto quando gli parve di esserci riuscito.

Si avviarono per il pranzo e vennero raggiunti a tavola da due bambini. Sewa Oiie disse, a mo’ di scusa: — Sa, non si riescono più a trovare bambinaie decenti, da questa parte del paese. — Shevek annuì, senza sapere che cosa fosse esattamente una bambinaia. Osservava i bambini con lo stesso sollievo, lo stesso diletto di sempre. Non aveva più visto bambini da quando aveva lasciato Anarres.

Erano bambini molto puliti, posati, che parlavano quando si rivolgeva loro la parola, vestiti in giacchetta azzurra di velluto e calzoni corti. Adocchiarono Shevek con timore, come se si fosse trattato del Mostro Venuto dallo Spazio. Il bambino di nove anni si comportava in modo severo con quello di sette; gli mormorò di non fissare l’ospite, lo pizzicò selvaggiamente quando gli disobbedì. Il più piccolo gli restituì il pizzicotto e cercò di dargli un calcio da sotto la tavola. Il Principio della Superiorità non pareva ancora instaurato bene nella sua mente.

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