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Allora si mettevano a parlare, uscivano a passeggiare o si recavano ai bagni, e poi a pranzare alla mensa dell’Istituto. Dopo il pranzo c’erano riunioni, o un concerto, o si incontravano con gli amici: Bedap e Salas e le loro conoscenze, Desar e altri dell’Istituto, i colleghi e gli amici di Takver. Ma le riunioni e gli amici erano periferici, per loro. Non era loro necessaria né la partecipazione sociale né quella semplicemente socievole; il loro legame era sufficiente, e non potevano nascondere che lo fosse. Tuttavia la cosa non pareva offendere gli altri. Anzi, al contrario, Bedap, Salas, Desar e gli altri venivano a loro come gli assetati alla fontana. Gli altri erano periferici per loro, ma essi erano centrali per gli altri. Non che facessero molto; non erano più amichevoli di tanti altri, né erano conversatori più brillanti; eppure i loro amici li amavano, contavano su di loro, e continuavano a portare loro regali… le piccole offerte che circolavano tra quelle persone, che possedevano nulla e tutto: una sciarpa fatta all’uncinetto, un pezzo di granito picchiettato di granati rosa, un vaso fatto a mano alla bottega della Federativa dei Vasai, una poesia sull’amore, una serie di bottoni di legno scolpiti a mano, una conchiglia del Mare di Sorruba. Davano il regalo a Takver, dicendo: — Ecco, a Shevek potrebbe piacere come fermacarte — oppure a Shevek, dicendo: — Ecco, a Takver potrebbe piacere questo colore. — Nel donare cercavano di condividere ciò che si condividevano Shevek e Takver, di celebrare, di lodare.

Fu una lunga estate, calda e luminosa: l’estate del 160° anno dell’Insediamento di Anarres. Abbondanti piogge nella primavera avevano inverdito i Piani di Abbenay e portato via la polvere, cosicché l’aria era straordinariamente chiara; di giorno il sole era caldo, e di notte le stelle splendevano fitte. Quando la Luna era in cielo si potevano distinguere i profili delle coste e dei continenti, sotto i ricci bianchissimi delle sue nubi.

— Perché ha un aspetto così bello? — disse Takver, stesa accanto a Shevek sotto la coperta arancione, con la luce spenta. Su di loro erano sospese, oscuramente, le Occupazioni di Spazi Disabitati; fuori della finestra era sospesa la Luna, brillante. — Pur sapendo che è un pianeta come questo, con solamente un clima migliore e degli abitanti peggiori, pur sapendo che sono tutti proprietaristi, e che combattono guerre, e fanno leggi, e mangiano mentre altri muoiono di fame, e comunque invecchiano tutti e incontrano le loro sfortune, e hanno i reumatismi e i calli ai piedi esattamente come la gente di qui… pur sapendo tutto questo, perché sembra così felice, come se la vita lassù dovesse essere tanto gioiosa? Io non posso guardare quella luminosità e pensare che ci possa vivere qualche orribile ometto con le maniche sudice e la mente atrofizzata come Sabul; non posso, e basta.

Le loro braccia e i loro petti nudi erano illuminati dalla Luna. La fine, sottile peluria sul viso di Takver componeva un’aureola che le offuscava í lineamenti; i capelli e le ombre erano neri. Shevek le toccò il braccio argenteo con la propria argentea mano, meravigliandosi al tepore del contatto in quella sera fresca.

— Quando puoi vedere una cosa nella sua totalità — egli disse, — ti pare sempre bellissima. I pianeti, le vite… Ma da vicino, un mondo è tutto terra e rocce. E, da un giorno a un altro giorno, la vita è un lavoro duro, ti stanchi, ne perdi la forma generale. Hai bisogno della distanza, di un intervallo. Il modo per vedere quanto sia bella la terra, è vederla dalla Luna. Il modo per vedere quanto sia bella la vita, è vederla dalla posizione elevata della morte.

— Questo è giusto per Urras. Teniamocene lontani, e lasciamo che resti la Luna… io non la voglio! Ma non intendo salire su una tomba e abbassare gli occhi sulla vita e dire: «Oh, che bella!». Io voglio vederla intera da in mezzo ad essa, qui, ora. Non me ne importa un fischio dell’eternità.

— Non ha niente a che vedere con l’eternità — disse Shevek, sorridendo: un uomo magro e irsuto di argento e di ombra. — La sola cosa che devi fare, per vedere la vita nella sua totalità, è di guardarla in quanto mortale. Io morirò; tu morirai; altrimenti, come potremmo amarci diversamente? Il sole sta ogni momento per scoppiare, altrimenti non potrebbe continuare a brillare.

— Ah! i tuoi discorsi! la tua maledetta filosofia!

— Discorsi? Non sono discorsi. Non è la ragione. È il tocco della mano. Io tocco la totalità, la stringo. Qual è la luce della Luna, qual è Takver? Come posso temere la morte? Se la stringo, se stringo nella mia mano la luce…

— Non fare il proprietarista — mormorò Takver.

— Cuore mio, non piangere.

— Non piango. Sei tu, che piangi. Sono le tue lacrime.

— Ho freddo. La luce della Luna è fredda.

— Stenditi. — Un grande brivido gli percorse tutto il corpo quando lei lo strinse fra le braccia.

— Ho paura, Takver — bisbigliò.

— Fratello, anima cara, taci.

Dormirono l’uno fra le braccia dell’altra quella notte, molte notti.

CAPITOLO 7

Shevek trovò una lettera nella tasca del nuovo soprabito bordato di pelliccia che aveva ordinato per l’inverno al negozio della via degli incubi. Non aveva idea di come la lettera ci fosse arrivata. Certamente non era nella posta che gli veniva recapitata tre volte al giorno, e che consisteva interamente di manoscritti ed estratti dei fisici di tutta Urras, di inviti a ricevimenti, di rozzi messaggi scritti da bambini delle scuole. Questa era invece un sottile foglio di carta incollato su se stesso, senza busta; non portava francobollo né la stampigliatura di una delle tre compagnie di recapito concorrenti.

La aprì, con una vaga apprensione, e lesse: «Se sei un Anarchico perché lavori con il sistema del potere tradendo il tuo Mondo e la Speranza Odoniana o sei qui per portarci questa Speranza? Sofferenti per l’ingiustizia e la repressione noi guardiamo al Mondo Gemello la luce di libertà nella notte buia. Unisciti a noi tuoi fratelli!» Non c’era firma, non c’era indirizzo.

La lettera agitò Shevek tanto moralmente quanto intellettualmente, dandogli una scossa che non era di sorpresa, bensì di una sorta di panico. Sapeva che c’erano, ma dove? Non ne aveva incontrato, non ne aveva visto nessuno, non aveva mai incontrato un povero. Aveva permesso che costruissero un muro intorno a lui, e non se n’era neppure accorto. Aveva accettato il riparo, proprio come un proprietarista. Si era lasciato comprare… come aveva detto Chifoilisk.

Ma non sapeva come abbattere il muro. E se lo avesse abbattuto, dove andare, poi? Il panico si serrò su di lui ancora più soffocantemente. A chi potersi rivolgere? Era circondato da ogni parte dai sorrisi dei ricchi.

— Vorrei parlarti, Efor.

— Certo, signore. Mi scusi, signore, faccio posto posare questa roba.

Il servitore si destreggiò abilmente con il pesante vassoio, tolse i copripiatti, versò il cioccolato amaro nella tazza, lo fece alzare schiumeggiando fino all’orlo, senza farlo traboccare e senza spandere gocce. Era chiaro ch’egli amava il rito della colazione del mattino e la propria abilità nell’officiarlo, ed era altrettanto chiaro che desiderava non subisse inopinate interruzioni. Parlava quasi sempre in modo molto chiaro, in iotico, ma ora, non appena Shevek gli aveva manifestato il desiderio di parlargli, Efor era scivolato nel locale dialetto cittadino. Shevek aveva un poco imparato a seguirlo; le trasformazioni della pronuncia risultavano coerenti a una loro logica, una volta imparata la regola, ma le elisioni lo lasciavano brancolante nel buio. Metà della frase veniva omessa. Era come un linguaggio cifrato, si disse: come se i «Nioti», come essi stessi si definivano, non volessero farsi capire dagli estranei.

Il servitore rimase fermo a lato della tavola, attendendo che Shevek si servisse. Egli sapeva — fin dalla prima settimana aveva imparato simpatie e antipatie di Shevek — che Shevek non voleva che gli porgesse la sedia, né essere servito mentre mangiava. La posa eretta e attenta sarebbe stata più che sufficiente a scoraggiare qualsiasi intenzione di instaurare un dialogo privo di formalità.

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