— Mi lasci! Mi lasci! — ripeteva lei, con lo stesso bisbiglio acuto di prima. Egli la lasciò. Rimase immobile, stordito. Armeggiò con i calzoni, cercando di chiuderli. — Io… mi spiace… pensavo che volesse…
— Per l’amor di Dio! — esclamò Vea, guardandosi la gonna nella semioscurità, afferrando le pieghe con due dita. — Ma guarda solo! Adesso mi dovrò cambiare!
Shevek rimase lì imbambolato, con la bocca aperta, respirando con difficoltà, le braccia penzoloni; poi d’improvviso si voltò e uscì incespicando dalla stanza semibuia. Ritornato nella stanza illuminata del ricevimento, passò tra la gente che vi si affollava, inciampò in una gamba, si trovò la strada bloccata da corpi, abiti, gioielli, seni, occhi, fiamme di candela, mobilio. Finì a sbattere contro una tavola. Su di essa c’era un vassoio d’argento nel quale piccole paste piene di carne, salse ed erbe erano disposte in cerchi concentrici, simili a un grande, pallido fiore. Shevek annaspò per respirare, si piegò su se stesso e vomitò sul vassoio.
— Lo porto a casa — disse Pae.
— Se lo porti via, per l’amor di Dio — disse Vea. — Lo stava cercando, Saio?
— Oh, un poco. Fortunatamente Demaere le ha telefonato.
— Glielo regalo.
— Non darà alcun fastidio. Si è addormentato in corridoio. Posso fare una telefonata, prima di uscire?
— Dia un bacio per me al Capo — disse Vea, ironicamente.
Oiie era giunto con Pae nell’appartamento della sorella, e con lui se ne andò. Si accomodarono nel sedile di mezzo della grossa auto governativa che Pae riusciva sempre ad avere con una telefonata: la stessa auto che era andata a prendere Shevek allo spazioporto l’estate precedente. Ora Shevek era steso dove l’avevano buttato, sul sedile posteriore.
— È stato con sua sorella tutto il giorno, Demaere?
— A partire da mezzogiorno, a quanto so.
— Grazie a Dio!
— Perché si preoccupa del fatto che sia andato nella zona povera? Ogni Odoniano è già convinto che siamo un mucchio di oppressi e di schiavi salariati; che differenza fa, anche se vede qualcosa che gli incoraggia la convinzione?
— Non m’importa di ciò che vede. Non vogliamo che sia visto. Non ha letto i quotidiani dei merli? O i manifestini che circolavano la scorsa settimana nella Città Vecchia, che parlavano del «Precursore»? Il mito dell’uomo che annuncia il millennio, «uno straniero, un proscritto, un esule che porta nelle mani vuote il tempo che verrà». Citavano queste parole. La marmaglia ha uno di quei suoi maledetti attacchi apocalittici. Cerca un personaggio da seguire. Un catalizzatore. Parlano di sciopero generale. Non impareranno mai. Hanno sempre bisogno di una lezione. Maledette bestie rivoltose, mandiamole a combattere il Thu, è l’unica cosa buona che riusciremo a cavarne.
Nessuno dei due disse altro, per tutto il viaggio.
Il guardiano notturno della Casa degli Anziani di Facoltà li aiutò a portare Shevek nella sua stanza. Lo misero sul letto. Cominciò subito a russare.
Oiie rimase ancora per togliere a Shevek le scarpe e per stendere una coperta sopra di lui. Il fiato dell’ubriaco puzzava; Oiie si allontanò dal letto, il timore e l’amore che provava per Shevek si alzavano in lui, e ciascuno soffocava l’altro. Aggrottò la fronte e mormorò: — Brutto scemo. — Spense la luce e tornò nell’altra stanza. Pae, fermo accanto alla scrivania, esaminava le carte di Shevek.
— Andiamo — disse Oiie, la cui espressione di disgusto si era fatta più intensa. — Venga. Sono le due. Ho sonno.
— Ma cosa ha continuato a fare, il bastardo, Demaere? Qui non c’è ancora nulla, assolutamente nulla. Che sia un imbroglio completo? Ci siamo fatti fregare da un maledetto paesano ingenuo proveniente dall’Utopia? Dov’è la sua teoria? Dov’è il nostro volo spaziale istantaneo? Dov’è il nostro vantaggio sugli Hainiti? Nove, dieci mesi che nutriamo il bastardo, per niente! — Comunque, s’infilò in tasca uno dei fogli prima di seguire Oiie alla porta.
CAPITOLO 8
Erano fuori all’aperto, sui campi atletici del Parco Settentrionale di Abbenay, ed erano in sei, nel lungo color oro, nel calore e nella polvere della sera. Erano piacevolmente sazi, poiché il pasto era durato buona parte del pomeriggio: una festa in strada e cottura su fuochi all’aperto. Era la festa dell’estate, il Giorno dell’Insurrezione, che commemorava il primo grande sollevamento di Nio Esseia nell’anno urrasiano 740, circa due secoli prima. Cuochi e lavoratori delle mense venivano onorati come ospiti dal resto della comunità, quel giorno, poiché era stato un gruppo di cuochi e camerieri a dare inizio agli scioperi che avevano condotto all’insurrezione. C’erano varie altre feste e tradizioni di questo tipo su Anarres, alcune istituite dai Coloni, e altre, come la fine del raccolto e la Festa del Solstizio, sorte spontaneamente dai ritmi della vita sul pianeta e dal bisogno, di coloro che lavorano insieme, di fare festa insieme.
Stavano chiacchierando, tutti in modo piuttosto disordinato, eccetto Takver, che aveva danzato per ore, aveva mangiato spaventose quantità di pane fritto e sottaceti e si sentiva piena di brio. — Perché Kvigot è stato assegnato alle pescherie del Mare Kerano, dove dovrà ricominciare tutto da capo, mentre Turib gli subentra qui nel suo programma di ricerca? — stava dicendo. Il suo gruppo di ricerca era stato incorporato in un progetto controllato direttamente dal CDP, ed ella era divenuta una forte sostenitrice di alcune idee di Bedap. — Perché Kvigot è un buon biologo che non va d’accordo con le teorie antiquate di Simas, e Turib è una nullità che gratta la schiena a Simas nei bagni. E sai chi prenderà la direzione del programma quando Simas si ritirerà? La prenderà Turib, ci scommetto!
— Che cosa significa questa espressione? — chiese qualcuno che non si sentiva molto portato per la critica sociale.
Bedap, che aveva acquistato peso in cintola e affrontava seriamente il problema dell’esercizio fisico, stava trotterellando animatamente nel campo d’allenamento. Gli altri sedevano su un’aiola polverosa, sotto gli alberi, e facevano esercizio verbale.
— È un verbo iotico — disse Shevek. — Un gioco che gli urrasiani fanno con le probabilità. Colui che indovina riceve una proprietà dall’altro. — Già da tempo aveva smesso di rispettare il divieto di Sabul di parlare dei suoi studi di iotico.
— E come ha fatto a entrare nel pravico una delle loro parole?
— I Coloni — disse un altro. — Dovettero imparare il pravico da adulti; devono avere continuato a pensare nella vecchia lingua per molto tempo. Ho letto da qualche parte che la parola dannazione non esiste nel Dizionario Pravico… anch’essa è iotica. Farigv non ci ha fornito nessuna parola per imprecare, quando ha inventato il linguaggio, oppure i suoi calcolatori non ne hanno compreso la necessità.
— Che cos’è l’inferno, allora? — chiese Takver. — Una volta pensavo che significasse il deposito di letame della città dove sono cresciuta. «Vai all’inferno!» Il luogo peggiore dove andare.
Desar il matematico (che ora aveva un incarico permanente tra il personale dell’Istituto ma continuava a girare nell’orbita di Shevek), sebbene rivolgesse raramente la parola a Takver, disse, nel suo stile crittografico: — Significa Urras.
— Su Urras, significa il posto dove vai se sei dannato.
— Cioè un’assegnazione nel Sudovest in estate — disse Terrus, un’ecologa, vecchia amica di Takver.
— È nel modello religioso, in iotico.
— So che devi leggere lo iotico, Shevek, ma devi anche leggere la religione?
— Parte della vecchia fisica urrasiana è tutta nel modello religioso. Saltano fuori concetti come quello. «Inferno» significa il luogo del male assoluto.
— Il deposito del letame a Valle Rotonda — Takver disse. — Come dicevo.
Giunse Bedap, affannato, bianco di polvere, segnato di rivoletti di sudore. Si sedette accanto a Shevek e si mise a respirare pesantemente.