Shevek decise di non dire più nulla, indipendentemente da ciò che gli avessero chiesto. Aveva più sete del solito; lasciò che il cameriere gli riempisse ancora il bicchiere, e sorseggiò il liquido frizzante e piacevole. Si guardò intorno, cercando di dissipare la collera e la tensione osservando gli altri. Ma anche gli altri si comportavano in modo molto emotivo, per degli iotici: gridavano, ridevano forte, si interrompevano l’un l’altro. Una coppia indulgeva in preliminari sessuali, in un angolo. Shevek distolse lo sguardo, disgustato. Ma egoizzavano perfino nel sesso? Accarezzarsi e copulare davanti a gente non accoppiata era altrettanto volgare quanto mangiare davanti a persone affamate. Riportò la propria attenzione al gruppo che stava intorno a lui. Avevano lasciato la predizione, ora, ed erano passati alla politica. Stavano discutendo della guerra, di quel che il Thu avrebbe fatto come mossa successiva, di quel che l’A-Io avrebbe fatto, di quel che il CGM avrebbe fatto.
— Perché parlate soltanto in astratto? — egli domandò d’improvviso, chiedendosi, mentre parlava, perché mai avesse aperto bocca, visto che aveva deciso di non parlare più. — Non sono nomi di paesi, sono persone che si ammazzano tra loro. Perché i soldati vanno? Perché una persona va a uccidere degli stranieri?
— Ma questa è proprio la funzione dei soldati — disse una donna piccola e graziosa, con un’opale nell’ombelico. Vari uomini cominciarono a spiegare a Shevek il principio della sovranità nazionale. Vea li interruppe. — Lasciatelo parlare. Come risolverebbe, lei, questo pasticcio, Shevek?
— La soluzione è perfettamente visibile.
— E dove?
— Anarres!
— Ma ciò che la sua gente fa sulla Luna non risolve i nostri problemi di qua.
— I problemi dell’uomo sono sempre uguali. Sopravvivenza. Di specie, di gruppo, di individuo.
— La difesa nazionale… — cominciò a gridare qualcuno.
Essi ribatterono ed egli ribatté. Sapeva ciò che intendeva dire, e sapeva che avrebbe convinto tutti, poiché era chiaro e sincero, ma per qualche motivo non riusciva a dirlo nel modo giusto. Tutti urlavano. La donna piccola e graziosa batté la mano sull’ampio bracciolo della poltrona su cui sedeva, ed egli vi si accomodò. La testa rasata, luccicante della donna spiò da dietro il suo braccio. — Salve, Uomo della Luna! — disse. Vea si era momentaneamente unita a un altro gruppo, ma adesso era tornata accanto a lui. Aveva il viso arrossato; i suoi occhi parevano grandi e liquidi. Gli parve di vedere Pae dall’altra parte della stanza, ma le facce erano tante, si confondevano tra loro. Le cose accadevano a pezzi e brandelli, inframmezzate da vuoti, come se gli fosse stato concesso di assistere al funzionamento del Cosmo Ciclico dell’ipotesi della vecchia Garab, da dietro le quinte. — Il principio dell’autorità legale deve essere sostenuto, altrimenti degenereremmo nella mera anarchia! — tuonava un uomo grasso e accigliato. Shevek disse: — Sì, sì, degenerate pure! Noi l’apprezziamo da un secolo e mezzo. — I piedi della donna piccola e graziosa, calzati in sandaletti d’argento, fecero capolino da sotto la gonna, su cui erano cucite centinaia e centinaia di perline che la ricoprivano tutta. Vea disse: — Ma ci parli di Anarres… com’è, realmente? È davvero così bello, lassù?
Egli era seduto sul bracciolo della poltrona, e Vea era rannicchiata sul cuscino accanto alle sue ginocchia, eretta e flessuosa, con i soffici seni che lo fissavano con i loro occhi ciechi, con il volto sorridente, compiaciuto, arrossato.
Qualcosa di cupo ruotava nella mente di Shevek, oscurando ogni cosa. Aveva la bocca secca. Terminò il bicchiere che il cameriere gli aveva appena servito. — Non so — rispose; sentiva la lingua quasi paralizzata. — No. Non è bello. È un mondo molto brutto. Non è come questo. Anarres è tutto polvere e colline aride. Tutto magro, tutto asciutto. E la gente non è bella. Hanno mani e piedi grossi, come me e come il cameriere che ci serve. Ma non hanno la pancia grossa. Diventano molto sporchi, e tutti fanno il bagno insieme, nessuno qui lo fa. Le città sono molto piccole e brutte, sono orribili. Non ci sono palazzi. La vita è noiosa, ed è un duro lavoro. Non sempre si può avere quello che si vuole, e neppure quello di cui si ha bisogno, perché non c’è abbastanza. Voi urrasiani avete abbastanza. Abbastanza aria, abbastanza pioggia, erba, oceano, cibo, musica, edifici, fabbriche, macchine, libri, vestiti, storia. Voi siete ricchi, voi possedete. Noi siamo poveri, noi manchiamo. Voi avete, noi non abbiamo. Ogni cosa è bella, qui. Fuorché le facce. Su Anarres non c’è nulla di bello, fuorché le facce. Le altre facce, gli uomini e le donne. Noi abbiamo solo quello, solo gli altri. Qui voi guardate i gioielli, là guardate gli occhi. E negli occhi vedete lo splendore, lo splendore dello spirito umano. Perché i nostri uomini e donne sono liberi… non possedendo nulla, sono liberi. E voi, i possessori, siete posseduti. Siete tutti in prigione. Ciascuno è solo, isolato, con il fagotto di ciò che possiede. Voi vivete in prigione, morite in prigione. E la sola cosa che posso vedere nei vostri occhi… il muro, il muro!
Tutti lo stavano fissando.
Udì la propria voce echeggiare ancora nel silenzio, sentì le orecchie bruciare. L’oscurità, il vuoto, rigirò ancora una volta nella sua mente. — Ho il capogiro — disse, e si alzò in piedi.
Vea accorse al suo braccio. — Venga da questa parte — disse, ridendo un poco, e senza fiato. La seguì mentre si faceva strada tra la gente. Ora sentiva di avere il viso molto pallido; e il capogiro non gli passava; sperava che lo stesse portando nella camera da bagno, o a una finestra dove avrebbe potuto respirare aria fresca. Ma la stanza in cui giunsero era grande e illuminata debolmente da luci indirette. Contro una parete si distingueva la mole di un letto grande, bianco; uno specchio copriva metà di un’altra parete. C’era una vicina, dolce fragranza di stoffe e di biancheria, e del profumo usato da Vea.
— Lei è troppo — disse Vea, portandosi direttamente davanti a lui e fissandolo in viso, nella semioscurità, con quella risata ansante. — Davvero troppo… lei è impossibile… è magnifico! — Gli posò le mani sulle spalle. — Oh, la faccia che facevano! Devo proprio darle un bacio per questo! — E, sollevandosi in punta di piedi, gli presentò la bocca, e la gola bianca, e i seni nudi.
Egli la strinse e le baciò la bocca, forzandole indietro la testa, e poi la gola e il seno. Ella cedette in un primo momento, come se non avesse ossa, poi si contorse un pochino, ridendo e spingendolo via debolmente, e cominciò a dire: — Oh, no, no, adesso si comporti bene — e poi: — Su, ragioni, dobbiamo tornare dagli altri. No, Shevek, si calmi, questo non va affatto! — Non le prestò attenzione. La spinse con sé verso il letto, ed ella venne, pur continuando a parlare. Con una mano, Shevek armeggiò con i complicati vestiti che indossava e riuscì a sbottonare i calzoni. Poi c’era il vestito di Vea, la gonna bassa ma stretta, ch’egli non riuscì a sollevare. — Ora basta — disse lei. — No, ora mi ascolti, Shevek, non va proprio, non ora. Non ho preso contracettivi, se resto gravida sarò in un bel pasticcio, mio marito torna tra quindici giorni! No, mi lasci — ma egli non poteva lasciarla; premeva la faccia contro la sua pelle soffice, sudata, profumata. — Ascolti, non mi rovini il vestito, la gente se ne accorgerà, per l’amor del Cielo. Aspetti… abbia solo pazienza, possiamo predisporlo, possiamo trovare un posto dove incontrarci, devo stare attenta alla mia reputazione, non posso fidarmi della cameriera, abbia pazienza, non ora… Non ora! Non ora! — Spaventata infine dalla sua cieca urgenza, dalla sua forza, lo spinse via con tutta la forza, premendogli le mani contro il petto. Egli fece un passo indietro, confuso dal suo improvviso tono impaurito e dalla sua resistenza; ma ormai non si poteva più fermare, la resistenza della donna era servita soltanto a eccitarlo maggiormente. La strinse a sé, e il suo seme schizzò contro il bianco tessuto della gonna.