Lei gli strinse il braccio. Egli si arrestò bruscamente, come se il suo tocco l’avesse fulminato con una scossa elettrica, lì sul posto. Lei lo spinse, sorridendo. — Non hai mangiato, vero?
— No. Oh Takver, sono stato male dal desiderio di te, sono stato male!
Giunsero insieme, stringendosi fieramente, al tratto di strada buio e privo di lampade, sotto le stelle. Si staccarono bruscamente, e Shevek indietreggiò fino alla parete più vicina. — Farei meglio a mangiare qualcosa — disse, e Takver rispose: — Sì, altrimenti cascherai in terra! Andiamo. — Percorsero un isolato fino alla mensa, l’edificio più grande di Chakar. Il pranzo regolare era terminato, ma i cuochi stavano mangiando, e diedero al viaggiatore un piatto di minestra e tutto il pane che voleva. Sedettero tutti alla tavola più vicina alla cucina. Le altre tavole erano già state ripulite e apparecchiate per l’indomani mattina. La grande sala era cavernosa, il soffitto s’innalzava nelle ombre, e l’altra estremità, di fronte a loro, era oscura, ad eccezione dei punti dove un piatto o una tazza luccicava su una tavola scura, riflettendo la luce. I cuochi e i servitori erano una squadra tranquilla, stanca dopo la giornata di lavoro; mangiavano in fretta, senza molto parlare, senza prestare molta attenzione a Takver e allo straniero. A uno a uno, essi terminarono e si alzarono per portare i piatti a coloro che li lavavano in cucina. Una vecchia donna disse, alzandosi: — Non abbiate fretta, ammari, hanno ancora un’ora di roba da lavare. — Aveva il volto severo e pareva dura, non materna, non benevola; ma parlava con compassione, con la carità degli uguali. Per loro non poteva fare di più che dire: «Non abbiate fretta», e guardarli per un istante con lo sguardo dell’amore fraterno.
Ed essi non potevano fare di più per lei, e poco di più l’uno per l’altro.
Ritornarono al Domicilio Otto, Stanza 3, e laggiù il loro lungo desiderio venne esaudito. Non accesero neppure la lampada; ad entrambi piaceva fare l’amore al buio. La prima volta entrambi vennero quando Shevek entrò in lei, la seconda volta lottarono e piansero in una rabbia di gioia, prolungando il loro culmine come procrastinare il momento della morte, la terza volta erano entrambi semiaddormentati, e girarono attorno al centro d’infinito piacere, attorno al reciproco essere, come pianeti che girassero ciecamente, tranquillamente, nella marea della luce solare, intorno al centro comune di gravità, oscillando, circolando interminabilmente.
Takver si destò all’alba. Si appoggiò sul gomito e guardò al di là di Shevek al rettangolo grigio della finestra, e poi a lui. Egli era sdraiato sulla schiena, e respirava così tranquillamente che il suo petto non pareva neppure muoversi; il suo volto era un po’ tirato all’indietro, e appariva remoto e austero nella luce sottile. Siamo venuti, pensò Takver, da una grande distanza, l’uno incontro all’altro. Abbiamo sempre fatto così. Superando grandi distanze, superando gli anni, superando abissi di fortuna. Ed è perché egli viene da tanto lontano, è per questo che niente ci può separare. Niente, nessuna distanza, nessun intervallo di tempo può essere più grande della distanza che c’è già tra noi, la distanza del nostro sesso, la differenza del nostro essere, della nostra mente; lo iato, l’abisso che scavalchiamo con un’occhiata, con un tocco, con una parola, la cosa più facile al mondo. Guarda quanto è lontano, quando è addormentato. Ma ritorna, ritorna, ritorna…
Takver diede notizia della partenza all’ospedale di Chakar, ma rimase finché non poterono sostituirla in laboratorio. Lavorava otto ore al suo turno: nel terzo trimestre dell’anno 168 molte persone continuavano con i lunghi turni lavorativi delle assegnazioni di emergenza, poiché, sebbene la siccità fosse terminata nell’inverno del 167, l’economia non era affatto ritornata alla normalità. «Turno lungo e mensa corta» era ancora la regola per le persone che svolgevano lavori specializzati, ma ora il cibo era adeguato al lavoro della giornata, cosa che non era stata vera un anno e due anni prima.
Shevek non fece quasi nulla per un certo periodo. Non si considerava malato; dopo i quattro anni di carestia, ciascuno era così abituato agli effetti della fatica e della denutrizione che li prendeva come la norma. Aveva quella tosse da polvere che era endemica nelle comunità meridionali del deserto, un’irritazione cronica dei bronchi simile alla silicosi e alle altre malattie dei minatori, ma anche questa era una cosa che si dava per scontata nei posti dove era stato. Egli si limitava a gioire del fatto che, anche se si fosse sentito di fare qualcosa, non ci sarebbe stato nulla ch’egli avrebbe potuto fare.
Per alcuni giorni egli e Sherut condivisero la stanza durante la giornata, entrambi dormendo fino al tardo pomeriggio, poi Sherut, una placida donna sulla quarantina, si trasferì con un’altra donna che faceva il turno di notte, e Shevek e Takver ebbero tutta la stanza a disposizione per le quattro decadi che passarono ancora a Chakar. Quando Takver era al lavoro, egli dormiva, o usciva a camminare nei campi o sulle montagne asciutte e nude che dominavano sulla città. Si recava al centro d’apprendimento nel tardo pomeriggio, e osservava Sedik e gli altri bambini sul campo dei giochi, si lasciava attirare, come spesso capitava agli adulti, in uno dei progetti dei bambini: un gruppo di falegnamini pazzi di sette anni, o un paio di serissimi geometri dodicenni che avevano dei guai con la triangolazione. Poi tornava con Sedik alla camera; andavano a prendere Takver quando usciva dal lavoro e andavano tutti insieme ai bagni e alla mensa. Un’ora o due dopo il pranzo, egli e Takver riportavano la bambina al dormitorio e ritornavano alla stanza. I giorni erano pieni di pace, nella luce autunnale, nel silenzio delle montagne. Era per Shevek un tempo fuori del tempo, a lato del suo flusso, irreale, durevole, incantato. A volte egli e Takver parlavano fino a tardi; altre volte andavano a letto non più tardi del buio e dormivano nove ore, dieci, nel profondo, cristallino silenzio della notte montana.
Egli era giunto con del bagaglio: una logora valigetta di cartone, con il suo nome scritto a grandi lettere in inchiostro nero; ogni anarresiano portava con sé delle carte, dei ricordi, un paio di stivali di ricambio, nello stesso tipo di valigia da viaggio, di cartone color arancio, pieno di graffi e ammaccata. La sua conteneva una camicia nuova ch’egli aveva preso mentre passava da Abbenay, un paio di libri e alcuni appunti, e un curioso oggetto, che, dentro la valigia, sembrava fatto di una serie di anelli piatti di fil di ferro e di alcune perline di vetro. Egli lo rivelò, con molto mistero, a Sedik, la seconda sera dopo il suo arrivo.
— È una collana — disse la bambina, con soggezione. La gente, nelle piccole città, portava un mucchio di gioielli. Nella sofisticata Abbenay il senso del contrasto tra il principio di non proprietà e l’impulso ad ornarsi era più forte, e un anello o una spilla erano il limite del buon gusto. Ma negli altri luoghi il profondo legame tra l’estetico e l’acquisitivo veniva semplicemente lasciato perdere; la gente si riempiva di gioielli senza vergogna. Molti distretti avevano un gioielliere di professione che svolgeva il suo lavoro per amore e per fama, oltre che le botteghe d’arte, dove potevate assecondare il vostro gusto con i modesti materiali disponibili: rame, argento, perline, spinello, e i granati e i diamanti paglierini degli Altipiani del Sud. Sedik non aveva visto molte cose lucenti e delicate, ma sapeva cos’erano le collane, e l’aveva riconosciuta.
— No; guarda — disse il padre, e con solennità e abilità alzò l’oggetto per mezzo del filo che univa i numerosi anelli. Sospeso alla sua mano, esso si animò, gli anelli ruotarono liberamente, descrivendo aeree sfere l’uno entro l’altro, le perline rifletterono la luce della lampada.