Cadeva una pioggia fine, nebbiosa, ed era molto buio; non c’erano lampade stradali. C’erano i lampioni, ma le luci non erano accese, o le lampade erano rotte. Qua e là, da finestre chiuse da scuri, filtravano aloni giallognoli. Più avanti, lungo la strada, veniva della luce da una porta aperta, attorno alla quale oziava un gruppo di uomini, che parlavano forte. Il lastrico della strada, lucido di pioggia, era sporco di pezzi di carta e di rifiuti. Le vetrine dei negozi, a quanto poteva distinguere, erano basse ed erano completamente coperte di pannelli di metallo o di legno, ad eccezione di uno che era stato sventrato dal fuoco ed era vuoto e annerito, con alcune schegge di vetro ancora aderenti alla cornice della vetrina infranta. La gente tirava dritto, ombre frettolose e mute.
Una vecchia donna veniva per la scala dopo di lui, ed egli si voltò per chiederle la strada. Alla luce del globo giallo che contrassegnava l’ingresso della metropolitana, la vide chiaramente in faccia: bianca e segnata, con lo sguardo spento e ostile della stanchezza. Grandi orecchini di metallo le dondolavano sulle guance. Saliva le scale laboriosamente, china per la fatica, o per l’artrite o per qualche deformità della colonna vertebrale. Ma non era vecchia come egli aveva pensato; doveva avere meno di trent’anni.
— Può dirmi dov’è la Strada dei Giochi? — le chiese, balbettando. La donna lo guardò con indifferenza, affrettò il passo quando raggiunse la cima della scala, e si allontanò senza una parola.
Shevek si diresse a casaccio per la strada. L’emozione della decisione improvvisa e della fuga da Ieu Eun si era trasformata in apprensione, in un senso di venire spinto, di essere inseguito. Evitò il gruppo di uomini accanto alla porta: l’istinto lo avvertiva che uno straniero isolato non si doveva avvicinare a quel tipo di gruppo. Quando vide un uomo davanti a lui che camminava da solo, lo raggiunse e gli ripeté la domanda. L’uomo rispose: — Non lo so — e si voltò dall’altra parte.
Non c’era altro da fare che andare avanti. Giunse a un incrocio meglio illuminato, a una strada che si snodava nella pioggia e nella foschia, in entrambe le direzioni, in una triste, opaca vistosità di insegne pubblicitarie luminose. C’erano molti negozi di vino e di prestiti su pegno, e alcuni di essi erano ancora aperti. Nella strada c’erano molte persone, che passavano in fretta davanti a Shevek, o entravano e uscivano dai negozi di vino. Un uomo giaceva per terra, accanto al bordo del marciapiede, con il cappotto tirato fin sopra la testa, steso alla pioggia, addormentato, malato, morto. Shevek lo fissò con orrore, lui e gli altri che passavano senza guardare.
Mentre era fermo, paralizzato, qualcuno si fermò accanto a lui e sollevò la faccia per guardarlo in viso: un uomo di bassa statura, non rasato, dal collo torto, di cinquanta o sessanta anni, con occhi rossi e la bocca senza denti aperta in una risata. Rideva in modo privo di senno dell’uomo grande e atterrito che gli stava davanti, e puntava contro di lui la mano tremolante. — Ma dove li hai presi, tutti quei capelli, eh, eh, dove li hai presi, tutti quei capelli — borbottava.
— Può… mi può dire dov’è la Strada dei Giochi?
— Certo, ci gioco, non gioco, non ho più niente. Se ne hai tu, hai qualcosa per un goccio in una notte fredda? Qualcosa ce l’hai di sicuro.
Si avvicinò. Shevek si ritrasse, vide la mano aperta ma non capì.
— Dai, signore, giochiamo, dammi qualcosa — mormorava l’uomo, senza minacciare e senza supplicare, meccanicamente, con la bocca ancora aperta in un ghigno privo di significato, la mano protesa.
Shevek capì. Si frugò in tasca, trovò il denaro che gli rimaneva, lo cacciò nelle mani del mendicante, e poi, raggelato da una paura che non era paura per se stesso, spinse via l’uomo, che continuava ancora a mormorare e a cercare di afferrarsi al suo cappotto, e si tuffò nella più vicina porta aperta. C’era un’insegna che diceva: «Pegni e Oggetti Usati Ottime Occasioni». All’interno, tra rastrelliere di soprabiti consumati, scarpe, scialli, pentole ammaccate, lampade rotte, piatti spaiati, taniche, cucchiai, perline, cocci e frammenti, ciascun pezzo di rigatteria marcato col suo prezzo, si arrestò e cercò di calmarsi.
— Cerca qualcosa?
Ripeté ancora una volta la richiesta d’informazioni.
Il negoziante, un uomo bruno, alto quasi quanto Shevek, ma curvo e molto magro, lo guardò attentamente. — Cosa vuole andarci a fare?
— Cerco una persona che abita laggiù.
— Da dove viene?
— Devo arrivare laggiù, Strada dei Giochi. È molto distante?
— Da dove viene, signore?
— Vengo da Anarres, dalla Luna — disse Shevek, con ira. — Devo andare nella Strada dei Giochi, adesso, questa sera.
— Ma è proprio lei? Lo scienziato? Che diavolo fa, qui?
— Scappo dalla polizia! E lei vuole dire alla polizia che sono qui, o vuole aiutarmi?
— Dannazione — disse l’uomo. — Dannazione. Senta… — Esitò, fu sul punto di dire qualcosa, poi sul punto di dire qualcosa di diverso; infine disse: — Basta che prosegua — e con lo stesso fiato, sebbene, a quanto pareva, con un completo rovesciamento di mente, aggiunse: — Va bene, chiudo. La porto io. Aspetti. Dannazione!
Andò a frugare nel retrobottega, spense le luci, uscì con Shevek, abbassò delle serrande di metallo e le chiuse a chiave, mise il lucchetto alla porta, e si avviò a passo svelto, dicendo: — Venga!
Camminarono per venti o trenta isolati, immergendosi nel labirinto di strade tortuose e vicoli che costituiva il cuore della Città Vecchia. La pioggia greve di foschia cadeva ovattata nell’oscurità illuminata in modo discontinuo, e sollevava odore di marcio, di pietra e metallo bagnati. Svoltarono in uno stretto vicolo privo d’illuminazione, tra due alti e antichi edifici da abitazione, il cui piano terreno era tutto costituito di negozi. La guida di Shevek si fermò e bussò alla serranda della vetrina di uno di questi: «V. Maedda, Drogheria e Pasticceria». Dopo un tempo piuttosto lungo, la porta venne aperta. L’uomo del banco dei pegni conferì con una persona all’interno, poi fece un gesto a Shevek, e tutt’e due entrarono. A farli entrare era stata una ragazza. — Tuio è dietro, venga — disse, alzando la testa per fissare Shevek, alla debole luce proveniente da un corridoio. — Ma è proprio lei? — Aveva una voce debole e ansiosa; sorrise in modo strano. — Ma è proprio lei? — ripeté.
Tuio Maedda era un uomo di carnagione bruna, sui quarant’anni, con volto tormentato, intellettuale. Chiuse un’agenda in cui stava scrivendo qualcosa, e si alzò rapidamente in piedi al loro ingresso. Salutò per nome l’uomo dei pegni, ma non distolse lo sguardo da Shevek.
— È venuto da me in negozio a chiedere come si arrivava qua, Tuio. Dice di essere lui, sai, quello di Anarres.
— Ed è proprio lei, eh? — Maedda disse lentamente. — Shevek. E che cosa ci fa, qui? — Fissò Shevek con occhi luminosi, allarmati.
— Cerco aiuto.
— Chi l’ha mandata da me?
— Il primo a cui l’ho chiesto. Non so chi lei sia. Gli ho chiesto dove potevo andare, e mi ha detto di venire da lei.
— Qualche altra persona sa che lei è qui?
— Non sanno che sono uscito. Domani lo sapranno.
— Va’ a chiamare Remeivi — Maedda disse alla ragazza. — Si accomodi, dottor Shevek. Le converrebbe dirmi cos’è successo.
Shevek si sedette su una sedia di legno ma non si sbottonò il cappotto. Era stanco, tremava. — Sono scappato — disse. — Dall’Università, dalla prigione. Non so dove andare. Forse è tutta una prigione, qui. Sono venuto qui perché parlano delle classi inferiori, delle classi lavoratrici, e io ho pensato, guarda, sono come la mia gente. Gente che potrebbe aiutarsi tra loro.
— Che tipo di aiuto cerca?
Shevek si sforzò di calmarsi. Si guardò attorno, nell’uficio piccolo e sporco, e infine guardò Maedda. — Io ho una cosa che loro desiderano — disse. — Un’idea. Una teoria scientifica. Sono venuto qui da Anarres perché pensavo che qui avrei potuto fare il lavoro e pubblicarlo. Non capivo che qui un’idea è una proprietà dello Stato. E io, per uno Stato, non lavoro. Non posso prendere il denaro e le cose che mi danno. Io voglio andarmene. Ma non posso tornare a casa. Dunque sono venuto qui. A voi non serve la mia scienza, e forse anche a voi non piace il vostro governo.