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— Loro?

— Sì, signor Shevek. Quelli che lei ha nominato una volta. I padroni.

La sera successiva, Atro passò a trovarlo. Pae doveva essere stato di vedetta, poiché qualche minuto dopo che Efor ebbe fatto entrare l’anziano studioso, anch’egli giunse, come se si fosse trovato da quelle parti per caso, e chiese con affascinante partecipazione notizie sull’indisposizione di Shevek. — Lei ha lavorato troppo nelle ultime settimane, signore — disse. — Non dovrebbe stancarsi così. — Non si sedette, e si accomiatò molto presto: la vera anima della urbanità. Atro continuò a parlare della guerra nel Benbili, che stava diventando, come la mise lui, «un’operazione su grande scala».

— Il popolo di questo paese, approva la guerra? — Shevek chiese, interrompendo un discorso di strategia. Lo rendeva perplesso l’assenza di giudizi morali, nei giornali popolari, sull’argomento. Avevano lasciato il tono retorico ed eccitato, ed ora le loro parole, frequentemente, erano le stesse dei bollettini televisivi emanati dal governo.

— Approvarla? Non penserai che siamo pronti a gettarci per terra e a lasciare che i maledetti thuviani marcino sopra di noi? La nostra condizione di potenza mondiale è in ballo!

— Ma intendo il popolo, non il governo. Il… il popolo che deve combattere.

— Che cosa vuoi che sia, per loro? Sono abituati alla coscrizione di massa. È la loro funzione, mio caro amico! Combattere per il loro paese. E, lasciamelo dire, non c’è miglior soldato al mondo che il soldato iotico, una volta che si sia abituato a prendere ordini. In tempo di pace può fare grandi parole sentimental-pacifistiche, ma il suo coraggio è sempre lì, pronto a mostrarsi. Il soldato semplice è sempre stato la nostra massima risorsa come nazione. È così che siamo diventati la potenza che siamo.

— Arrampicandovi su una catasta di bambini morti? — disse Shevek, ma la collera, o, forse, un’inconfessata riluttanza a ferire i sentimenti del vecchio scienziato, gli fece tenere bassa la voce; e Atro non lo udì.

— No — continuava a dire Atro, — troverai che l’animo del popolo è saldo come l’acciaio, quando il paese è minacciato. Sì, alcuni provocatori a Nio e nelle città industriali fanno chiasso tra una guerra e l’altra, ma è grande vedere come il popolo faccia quadrato quando la bandiera è in pericolo. Tu non lo crederai, lo so. Il guaio dell’Odonianesimo, lo sai, mio caro amico, è che è femmineo. Esso, semplicemente, non include il lato virile della vita. «Sangue, acciaro e fulgor di battaglia», come dice l’antico poeta. Non capisce il coraggio… l’amore per la bandiera.

Shevek rimase in silenzio per un istante, poi disse, gentilmente: — Questo può essere vero, in parte. Voglio dire, non abbiamo bandiere.

Quando Atro se ne fu uscito, Efor entrò per ritirare il vassoio del pranzo. Shevek lo fermò. Gli andò vicino, dicendo: — Scusami, Efor — e posò sul vassoio una striscia di carta. Su di essa aveva scritto: «C’è un microfono in questa stanza?».

Il servitore chinò il capo e lesse, lentamente, poi alzò lo sguardo su Shevek e gli diede una lunghissima occhiata, da vicino. Quindi i suoi occhi si spostarono per un attimo verso il caminetto.

«Stanza da letto?» chiese Shevek, con lo stesso sistema.

Efor scosse il capo, posò il vassoio e seguì Shevek nella camera da letto. Chiuse la porta dietro di sé con l’assenza di rumore caratteristica di un buon servitore.

— Notato il primo giorno, spolverando — disse, con un sogghigno che trasformò le sue rughe in rigidi solchi.

— Non ce ne sono, qui dentro?

Efor alzò le spalle. — Mai visto nessuno. Potremmo aprire l’acqua, signore, come nelle storie di spie.

Passarono avanti, raggiungendo il magnifico tempio d’oro e d’avorio del cesso. Efor aprì i rubinetti e poi diede un’occhiata alle pareti. — No — disse. — Non credo. E gli occhi spia li potrei vedere. Trovati quando lavoravo per uno di Nio, una volta. Se li vedi una volta non ti scappano più.

Shevek prese un altro pezzo di carta dalla tasca e la mostrò a Efor. — Sai da dove provenga?

Era il messaggio che aveva trovato nel soprabito: «Unisciti a noi tuoi fratelli.»

Dopo una pausa (leggeva lentamente, muovendo le labbra chiuse), Efor disse: — Non so da dove proviene.

Shevek rimase deluso. Pensava che lo stesso Efor era in una posizione eccellente per far scivolare qualcosa nelle tasche del suo «padrone».

— No, so da chi viene. In un certo senso.

— Chi? Come posso raggiungerli?

Altra pausa. — Pericolosa faccenda, signor Shevek. — Distolse la faccia e andò ad aumentare il flusso dell’acqua dei rubinetti.

— Non voglio coinvolgerti. Se potessi soltanto dirmi… dirmi dove andare. Cosa dovrei chiedere. Mi basta un nome.

Una pausa ancora più lunga. Il volto di Efor aveva un aspetto tirato, duro. — Non… — cominciò a dire, poi s’interruppe. Poi disse, bruscamente, a voce molto bassa: — Senta, signor Shevek, Dio sa come la vogliono, come abbiamo bisogno di lei, ma senta, lei non ha idea di come sia. Come pensa di nascondersi? Un uomo come lei? Con l’aspetto che ha lei? È una trappola, qui, ma è una trappola dappertutto. Lei può scappare, ma non può nascondersi. Non so cosa dirle. Darle dei nomi, sicuro. Chieda a qualsiasi Niota, le dirà dove andare. Ne abbiamo abbastanza. Dobbiamo avere un po’ d’aria da respirare. Ma se la prendono, la fucilano, come mi sento? Lavoro per lei da otto mesi, sono arrivato ad amarla. Ad ammirarla. Vengono da me tutti i momenti. Io dico: «No. Lasciatelo stare. Una brava persona, non c’entra coi nostri guai. Lasciatelo tornare da dove viene dove la gente è libera. Lasciate che qualcuno sia libero da questa prigione maledetta da Dio dove viviamo!».

— Non posso tornare. Non ancora. Voglio incontrare queste persone.

Efor rimase in silenzio. Forse fu l’abitudine di tutta una vita come servitore, come uno che obbedisce, a farlo annuire, infine, e dire, bisbigliando: — Tuio Maedda, quello che cercate. Strada dei Giochi, nella Città Vecchia. La drogheria.

— Pae dice che non mi è permesso di lasciare la zona universitaria. Mi possono fermare se mi vedono salire sul treno.

— Taxi, magari — disse Efor. — Ne chiamo uno, lei scenda per le scale. Conosco Kae Oimon al posteggio. Ha del buon senso. Ma non so…

— Benissimo. Subito. Pae è appena passato, mi ha visto, pensa che non uscirò di casa perché sono malato. Che ora è?

— Sette e mezza.

— Se parto adesso, ho tutta la notte per trovare dove devo andare. Chiamami il taxi, Efor.

— Le preparo la valigia, signore.

— Una valigia di cosa?

— Le serviranno degli abiti…

— Ho già addosso degli abiti! Vai.

— Non può andar via senza niente — Efor protestò. Era questo a renderlo ansioso e inquieto più di ogni altra cosa. — Ha soldi?

— Oh… già. Devo prenderli.

Shevek era già pronto a uscire; Efor si grattò la fronte, fece faccia triste e severa, ma si recò al telefono del corridoio per chiamare il taxi. Al suo ritorno trovò Shevek accanto alla porta del corridoio, con già addosso il soprabito. — Scenda — disse Efor, di malavoglia. — Kae viene alla porta di servizio, tra cinque minuti. Gli dica di uscire per la Strada del Parco, laggiù non c’è il controllo come alla porta principale. Non passi dalla porta, la fermano di sicuro.

— Sarai punito per questo, Efor?

Entrambi parlavano a bisbigli.

— Io non so che lei è uscito. Domattina, dico che lei non s’è ancora alzato. Dorme. Li terrà lontani un po’.

Shevek lo prese per le spalle, lo abbracciò, gli strinse la mano. — Grazie, Efor!

— Buona fortuna — disse l’uomo, sorpreso. Shevek era già partito.

La costosa giornata con Vea aveva consumato a Shevek la maggior parte del denaro spicciolo, e la corsa in taxi fino a Nio gli richiese altre dieci unità. Scese a una stazione principale della metropolitana, e servendosi della piantina raggiunse con la metropolitana la Città Vecchia, una sezione della città ch’egli non aveva mai visto. La Strada dei Giochi non era riportata sulla piantina, ed egli scese dal vagoncino alla fermata centrale della Città Vecchia. Quando uscì dalla spaziosa stazione di marmo e risalì sulla strada, si arrestò, confuso. Non sembrava affatto Nio Esseia.

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