Lei gli restituì lo sguardo, con un debole sorriso.
Si sedette su un basso sgabello imbottito, accanto a lui, in modo da poterlo guardare in faccia. Si aggiustò la bianca gonna sulle caviglie e disse: — Ora, mi dica come è veramente tra uomini e donne, su Anarres.
Era incredibile. La cameriera e l’uomo maggiordomo erano nella stessa stanza; Vea sapeva che egli aveva una compagna, ed egli sapeva che l’aveva anche lei; e non una parola che riguardasse la copulazione era passata tra loro. Eppure il suo vestito, i movimenti, il tono… che cos’erano se non l’invito più aperto?
— Tra un uomo e una donna c’è quello che vogliono ci sia tra loro — disse, piuttosto bruscamente. — Entrambi e insieme.
— Allora è vero, davvero non avete moralità? — chiese lei, come se fosse stata scossa, ma anche compiaciuta.
— Non capisco cosa voglia dire. Ferire una persona laggiù è esattamente come ferire una persona qui.
— Vuole dire che avete tutte le identiche vecchie regole? Deve sapere, io credo che la moralità sia soltanto un’altra superstizione, come la religione. Finirà col venire ripudiata.
— Ma la mia società — egli disse, completamente frastornato, — è un tentativo di raggiungerla. Ripudiare il moralismo, sì… le regole, le leggi, le punizioni… in modo che le persone possano vedere il bene e il male e scegliere tra i due.
— Dunque avete gettato via tutti i «devi fare così» e «non devi fare cosà». Ma, sa, penso che voi Odoniani non abbiate capito tutta la faccenda. Avete ripudiato sacerdoti e giudici e leggi sul divorzio e tutto il resto, ma avete conservato tutti i guai che stanno loro dietro. Vi siete limitati a cacciarli nell’interno, nelle vostre coscienze. Ma sono ancora lì. Siete altrettanto schiavi quanto lo eravate prima! Voi non siete veramente liberi!
— Come può dirlo?
— Ho letto l’articolo di una rivista, sull’Odonianesimo — disse lei. — E siamo stati insieme tutto il giorno. Io non la conosco, ma conosco alcune cose di lei. So che lei ha una… una Regina Teaea dentro di lei, proprio dentro quella sua testa chiomata. E le dà ordini tutto il giorno, proprio come li dava ai suoi servi la vecchia tiranna. Dice: «Fai questo!», e lei lo fa, e «Non fare questo!» e lei non lo fa.
— Ed è quello il posto che le compete — disse lui, sorridendo. — Nella mia testa.
— No. Meglio averla in un palazzo. Così potreste ribellarvi contro di lei. Lei si sarebbe ribellato! Il nonno del suo trisavolo l’ha fatto; almeno egli è corso sulla luna per sfuggire. Ma ha portato con sé la Regina Teaea, e voi l’avete ancora!
— Forse. Ma ella ha imparato, su Anarres, che se mi ordina di far male a un’altra persona, io faccio male a me stesso.
— La solita vecchia ipocrisia. La vita è lotta, e vince il più forte. Tutto ciò che la civiltà fa, è nascondere il sangue e mascherare l’odio dietro le belle parole!
— La vostra civiltà, forse. La nostra non nasconde nulla. È tutto in piena luce. La Regina Teaea indossa la propria pelle, laggiù. Noi seguiamo una sola legge, soltanto una, la legge dell’evoluzione umana.
— La legge dell’evoluzione è quella della sopravvivenza del più forte!
— Sì, e il più forte, nell’esistenza di ogni specie sociale, è colui che è più sociale. In termini umani, più morale. Vede, non abbiamo né prede né nemici, su Anarres. Abbiamo solo l’un l’altro. Non si può guadagnare forza dal ferimento reciproco. Solo debolezza.
— Non m’importa di ferire o non ferire. Non m’importa dell’altra gente, e non importa neppure a nessun altro. Gli altri fingono che a loro importi. Io non voglio fingere. Io voglio essere libera!
— Ma Vea… — egli cominciò, con tenerezza, poiché le perorazioni sulla libertà lo commuovevano sempre, ma in quel momento il campanello suonò. Vea si alzò, stirò la gonna con la mano e si fece avanti sorridendo per dare il benvenuto agli ospiti.
Nel corso dell’ora seguente giunsero trenta o quaranta persone. Dapprima Shevek si sentì indispettito, insoddisfatto e annoiato. Era semplicemente uno dei soliti ricevimenti in cui tutti se ne stavano tra i piedi con un bicchiere in mano a parlare forte e a sorridere. Ma presto divenne più interessante. Cominciarono a nascere discussioni e polemiche, la gente si sedette a parlare, cominciò a sembrare una festa a casa. Delicati piccoli pasticcini con pezzetti di carne e pesce cominciarono a circolare, i bicchieri venivano continuamente riempiti dall’attento cameriere. Shevek accettò una bevanda. Ormai vedeva da mesi gli urrasiani trangugiare alcool, e non gli pareva che qualcuno di loro si fosse ammalato. Il liquido sapeva di medicina, ma qualcuno gli spiegò che era quasi tutta acqua con acido carbonico, che gli piaceva. Aveva sete, e quindi lo bevve subito.
Un paio di persone parevano decise a parlare di fisica con lui. Una di esse era assai cortese, e Shevek riuscì a sfuggirgli per qualche tempo, poiché trovava difficile parlare di fisica con coloro che non fossero fisici. L’altro era asfissiante, e non era possibile sfuggirgli; ma l’irritazione, Shevek scoprì, rendeva assai più facile parlare. L’uomo sapeva tutto, evidentemente perché aveva un mucchio di soldi. — Secondo me — egli informò Shevek, — la sua Teoria della Simultaneità, semplicemente, nega il fatto più ovvio che riguardi il tempo, il fatto che il tempo passa.
— Be’, in fisica una persona sta attenta a quello che chiama «fatti». È diversa dal mondo degli affari — disse Shevek, molto pacatamente e gentilmente, ma c’era qualcosa, nella sua pacatezza, che portò Vea, che chiacchierava con un altro gruppo, a voltarsi per ascoltare. — Entro i termini rigorosi della Teoria della Simultaneità, la successione non è considerata come un fenomeno fisicamente obiettivo, bensì soggettivo.
— Su, cerchi di non spaventare Dearri, e ci dica che cosa significa in parole adatte ai bambini — disse Vea. L’acutezza della donna fece sorridere Shevek.
— Be’, noi pensiamo che il tempo «passi», scorra davanti a noi; ma se invece fossimo noi a muoverci in avanti, dal passato al futuro, scoprendo sempre il nuovo? Sarebbe come leggere un libro, vedete. Il libro è già lì, tutto insieme, tra le copertine. Ma se volete leggere la storia e capirla, dovete cominciare dalla prima pagina, e andare avanti, sempre con ordine. Così l’universo sarebbe un libro grandissimo, e noi saremmo dei lettori piccolissimi.
— Ma il fatto è — disse Dearri, — che noi sperimentiamo l’universo come una successione, un flusso. In tal caso, a che serve la teoria che su qualche piano superiore possa essere già tutto esistente nell’eternità? Per divertire voi teorici, forse, ma non ha applicazioni pratiche, non ha peso nella vita reale. A meno che non ci dica che possiamo costruire una macchina del tempo! — aggiunse con una sorta di dura, falsa giovialità.
— Ma noi non sperimentiamo l’universo soltanto come una successione — disse Shevek. — Lei non sogna mai, signor Dearri? — Era contento di essersi, almeno per una volta, ricordato di chiamare qualcuno «signore».
— E cosa c’entra?
— Soltanto nello stato cosciente, a quanto pare, noi sperimentiamo il tempo. Un bambino neonato non ha tempo; non può distanziarsi dal passato e capire come si collega al presente, o pianificare il modo in cui il suo presente potrebbe collegarsi al suo futuro. Egli non sa che il tempo passa; non comprende la morte. Anche la psiche inconscia dell’adulto è simile, abitualmente. Nel sogno non c’è tempo, e le successioni cambiano, e causa ed effetto sono tutti mescolati tra loro. Nel mito e nella leggenda non c’è tempo. A quale passato si riferisce la fiaba, quando dice: «C’era una volta»? E così, quando il mistico compie la riconnessione della sua ragione e del suo inconscio, egli vede ogni cosa divenire come una singola entità, e comprende l’eterno ritorno.
— Sì, i mistici — disse l’uomo timido, con ansia. — Tebore, nell’Ottavo Millennio. Egli scrisse: La mente inconscia si coestende con l’universo.