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— Cerca di conoscere le notizie da lui portate, presto. Mi spiace che non sia una donna e che non possa parlare in modo assennato…

Lo straniero, intanto, si era destato e giaceva febbricitante nella semioscurità della Loggia. I sogni non controllati della malattia si muovevano nei suoi occhi. Si rizzò a sedere, comunque, e parlò in modo composto. E mentre Coro Mena lo ascoltava, le sue ossa parevano volersi rattrappire dentro di lui, cercando di sottrarsi a quella terribile storia, a quella nuova cosa.

— Ero Selver Thele, quando abitavo a Eshreth in Sornol. La mia città fu distrutta dagli umani quando essi tagliarono gli alberi di quella regione. Io fui uno di coloro che furono costretti a servirli, insieme con mia moglie Thele.

"Lei venne violentata da uno di loro e morì. Io attaccai l’umano che l’aveva uccisa. Lui mi avrebbe ucciso, a quel punto, ma un altro di loro mi salvò e mi liberò.

"Io lasciai Sornol, dove adesso nessuna città è al sicuro dagli umani, e giunsi qui all’Isola del Nord, e andai a vivere sulla costa di Kelme Deva, nei Boschi Rossi. Infine vi giunsero gli umani e cominciarono a tagliare il mondo. Distrussero una città, laggiù: Penle. Catturarono un centinaio di uomini e donne e li costrinsero a servirli, e a vivere nei recinti.

"Io non venni preso. Andai con altri che erano scappati da Penle e che si erano rifugiati nelle paludi a nord di Kelme Deva. A volte, la notte, mi recavo tra gli uomini chiusi nei recinti degli umani. E gli uomini dei recinti mi dissero che c’era quello. Quello che avevo cercato di uccidere.

"All’inizio pensai di provarci nuovamente; oppure di liberare la gente chiusa nei recinti. Ma sempre vedevo cadere gli alberi, e il mondo aprirsi sotto le lame e venire abbandonato a marcire. Gli uomini sarebbero potuti scappare, ma le donne erano chiuse in modo più sicuro e non avrebbero potuto farlo, e cominciavano a morire.

"Io parlai con le persone che si nascondevano nella palude. Eravamo tutti molto spaventati e molto adirati, e non avevamo modo di dare la libertà alla nostra paura e alla nostra collera. Così, alla fine, dopo lunghi discorsi, lungo sognare, e dopo aver fatto un piano, uscimmo alla luce del giorno e uccidemmo gli umani di Kelme Deva con frecce e lance da caccia e bruciammo la loro città e le loro macchine. Non lasciammo nulla. Ma quell’umano si era allontanato. Ritornò indietro da solo. Io cantai su di lui, e lo lasciai andare."

Selver tacque.

— E poi? — bisbigliò Coro Mena.

— Poi giunse da Sornol una nave volante, e ci diede la caccia nella foresta, ma non trovò alcuno. Così appiccarono fuoco alla foresta; ma piovve, e causarono pochi danni. La maggior parte delle persone liberate dai recinti e delle altre è andata più lontano, a nord e a est, verso le Colline di Holle, perché temevano che giungessero molti umani a darci la caccia. Io viaggiai da solo. Gli umani mi conoscono, sapete; riconoscono la mia faccia, e questo mi spaventa, e spaventa coloro che stanno con me.

— Che cos’è la tua ferita? — chiese Torber.

— Quell’umano mi ha colpito con il loro tipo di armi; ma io l’ho cantato a terra e l’ho lasciato andare.

— Da solo hai messo a terra un gigante? — chiese Torber con un sorriso feroce, augurandosi di poter credere.

— Non ero solo. Ero con tre cacciatori e avevo in mano la pistola del gigante… questa.

Torber si ritrasse istintivamente dall’oggetto.

Per un certo tempo, nessuno di loro parlò. Infine Coro Mena disse: — Ciò che tu ci racconti è molto nero, e la strada scende sempre più in basso. Sei un Sognatore della tua Loggia?

— Lo ero. Non esiste più una Loggia di Eshreth.

— Sono tutte una; parliamo l’Antica Lingua insieme. Tra i salici di Asta tu mi hai parlato la prima volta, chiamandomi Padron Sognatore. E io lo sono. Tu sogni, Selver?

— Raramente, oggi — rispose Selver, obbediente al catechismo, e chinò la faccia febbricitante e segnata di cicatrici.

— Da sveglio?

— Da sveglio.

— E sogni bene?

— Non bene.

— E tieni il sogno fra le tue mani?

— Sì.

— Lo intessi e gli dai forma, lo dirigi e lo segui, lo inizi e lo termini a volontà?

— A volte; non sempre.

— E puoi percorrere la strada presa dal tuo sogno?

— A volte. A volte ho timore di farlo.

— E chi non l’ha? Non sei del tutto malvagio, Selver.

— No, lo sono del tutto — disse Selver. — In me non resta nulla di buono. — E cominciò a tremare.

Torber gli diede da bere la linfa di salice e gli ordinò di sdraiarsi. Coro Mena doveva ancora rivolgergli la domanda della donna-capo; la rivolse con riluttanza, inginocchiato accanto all’uomo malato: — I giganti, gli "umani", come tu li chiami, seguiranno le tue tracce, Selver?

— Non ho lasciato tracce. Nessuno mi ha visto tra Kelme Deva e questo luogo, sei giorni di cammino. Ma non è questo il pericolo. — Si sforzò di rimettersi a sedere. — Ascolta, ascolta. Tu non vedi il pericolo. E come potresti vederlo? Tu non hai fatto quello che ho fatto io, non ne hai mai sognato: far morire duecento persone. Gli umani non seguiranno me, ma forse ci seguiranno tutti. Ci daranno la caccia, come fanno i cacciatori con i conigli. È questo il pericolo. Possono volerci uccidere. Uccidere tutti, tutti gli uomini.

— Sdraiati…

— No, non sto delirando, questi sono veri fatti e veri sogni. C’erano duecento umani a Kelme Deva, e sono morti. Li abbiamo uccisi noi. Li abbiamo uccisi come se non fossero uomini. Essi non si rivolteranno e non faranno lo stesso? Hanno ucciso i nostri uno alla volta, ma adesso ci uccideranno come uccidono gli alberi: a cento e cento e cento.

— Stai calmo — disse Torber. — Queste cose succedono nel sogno della febbre, Selver. Non succedono nel mondo.

— Il mondo è sempre nuovo — disse Coro Mena — per vecchie che siano le sue radici. Selver, come sono, queste creature? Hanno l’aspetto di uomini e parlano come uomini, ma non sono uomini?

— Non lo so. Gli uomini non si uccidono tra loro, se non nella pazzia. C’è qualche bestia che uccide individui della sua stessa specie? Solo gli insetti. Questi umani ci uccidono con la leggerezza con cui noi uccidiamo i serpenti. Colui che ha insegnato a me, mi ha detto che si uccidono tra loro, in dispute, e anche in gruppi, come formiche che lottano. Io questo non l’ho visto. Ma so che non risparmiano colui che chieda la vita. Non esitano a colpire un collo chino, l’ho visto io! In loro c’è il desiderio di uccidere, e dunque mi è parso giusto metterli a morte.

— E tutti i sogni degli uomini — disse Coro Mena, seduto a gambe incrociate nell’oscurità — cambieranno. Non saranno più gli stessi. Io non camminerò più per il sentiero che ieri ho percorso con te, il sentiero che sale dal boschetto di salici e su cui ho camminato per tutta la mia vita. È cambiato. Tu hai camminato su di quello, ed esso è cambiato profondamente.

"Prima di questo giorno, la cosa che dovevamo fare era la cosa giusta da farsi; la strada che dovevamo percorrere era la strada giusta e ci conduceva a casa. Dov’è adesso la nostra casa? Poiché tu hai fatto ciò che dovevi fare, e non era il giusto. Hai ucciso degli uomini. Io li vidi, cinque anni fa, nella Valle di Lemgan, dove erano giunti con una nave volante; mi nascosi e osservai i giganti, sei di numero, e li vidi parlare, e guardare le rocce e le piante, e cuocere il cibo. Sono uomini. Ma tu sei vissuto tra loro; dimmi, Selver, sognano?"

— Come i bambini, nel sonno.

— Non hanno addestramento?

— No. A volte parlano dei loro sogni, e i guaritori cercano di usarli per la cura, ma nessuno di loro è addestrato, o ha qualche abilità nel sognare. Lyubov, che ha insegnato a me, mi comprendeva quando gli mostravo come sognare, eppure, nonostante ciò, continuava a chiamare "reale" il tempo del mondo e "irreale" il tempo del sogno, come se ci fosse differenza tra i due.

— Tu hai fatto ciò che dovevi fare — ripeté Coro Mena, dopo un silenzio. I suoi occhi incontrarono quelli di Selver, attraverso le ombre. La tensione disperata si allentò nella faccia di Selver; la sua bocca sfregiata si rilassò; si appoggiò sulla schiena senza dire altro. In breve si addormentò.

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