Un uomo molto vecchio, che parlava con l’accento del Sornol Meridionale, posò le mani sulla spalla di Selver, lo accarezzò e disse: — Mio caro giovane dio, tu hai bisogno di cantare, questo ti farebbe bene.
— Non posso. Canta tu per me.
Il vecchio cantò; altri si unirono, con le voci acute e sottili, quasi stonate, come il vento che soffia tra le canne acquatiche di Endtor. Cantarono una delle canzoni del frassino, che parlava delle foglie delicate e solcate da robuste nervature che diventano gialle in autunno quando le bacche diventano rosse, e poi una notte il primo gelo le inargenta.
Mentre Selver ascoltava il canto del frassino, Lyubov era sdraiato accanto a lui. Da sdraiato non pareva così mostruosamente alto e grosso di membra. Dietro a lui c’era l’edificio semidiroccato, sventrato dal fuoco, che nereggiava contro le stelle.
— Io sono come te — disse Lyubov, senza guardare Selver, con quella voce di sogno che cerca di rivelare la propria falsità. Il cuore di Selver era appesantito dal dolore per l’amico.
— Ho mal di testa — disse Lyubov, con la propria voce, strofinandosi il dorso del collo come faceva sempre, e mentre così faceva Selver tese la mano per toccarlo, per consolarlo.
Ma Lyubov era d’ombra e di luce dei falò, nel tempo del mondo, e i vecchi cantavano la canzone del frassino, dei piccoli fiori bianchi sui rami neri in primavera, tra le foglie nervate.
Il giorno dopo, gli umani imprigionati nel recinto mandarono a chiamare Selver. Lui giunse a Eshsen nel pomeriggio, e si incontrò con loro all’esterno del recinto, sotto le fronde di una quercia, poiché la gente di Selver si sentiva un poco a disagio sotto il cielo nudo e aperto.
Eshsen era stato un boschetto di querce; quell’albero era il più grande dei pochi che i coloni avessero lasciato in piedi. Stavano sulla lunga discesa dietro il bungalow di Lyubov, una delle sei o sette case che fossero riuscite a superare indenni la notte dell’incendio. Insieme a Selver, sotto la quercia c’erano Reswan, la donna-capo di Berre, Greda di Cadast, e altri che volevano partecipare all’incontro: una dozzina in tutto.
Molti arcieri facevano la guardia, temendo che gli umani avessero con sé delle armi nascoste, ma sedevano dietro cespugli o rovine lasciate dall’incendio, in modo da non dominare la scena con un suggerimento di minaccia.
Insieme con Gosse e con il colonnello Dongh c’erano tre degli umani che venivano chiamati ufficiali e due degli appartenenti al campo dei tagliaboschi: alla vista di uno di loro, Benton, gli ex schiavi trattennero il respiro. Benton aveva l’abitudine di punire i "creechie pigri" castrandoli in pubblico.
Il colonnello aveva un aspetto smagrito; la sua pelle, che normalmente aveva un colore giallo-marrone, ora appariva giallastro-grigia; la sua malattia non era una finzione.
— Ora, la prima cosa è — disse il colonnello, quando si furono tutti messi al loro posto, gli esseri umani in piedi, la gente di Selver accosciata o seduta sul terriccio umido e soffice composto di foglie di quercia — la prima cosa è che io desidero subito avere una definizione operativa di cosa esattamente significano quei vostri termini, e che cosa significano in termini di garantire la sicurezza del personale sotto il mio comando qui.
Seguì un silenzio.
— Voi capite l’inglese, vero, almeno alcuni di voi?
— Sì. Ma non capisco la vostra domanda, signor Dongh.
— Colonnello Dongh, prego!
— Allora voi chiamatemi colonnello Selver, prego!
Una nota di canto s’infilò nella voce di Selver; si alzò in piedi, pronto per la contesa, con le melodie musicali che scorrevano nella sua mente come fiumi.
Ma il vecchio umano si limitò a starsene lì immobile, grosso e pesante, rabbioso, ma senza accettare la sfida.
— Non sono venuto qui per farmi insultare da voi piccoli umanoidi — disse.
Ma le sue labbra tremavano, mentre lo diceva. Era vecchio, e sconcertato, e umiliato. Ogni anticipazione del trionfo si allontanò da Selver. Non c’era più trionfo nel mondo, solo morte. Tornò a sedere.
— Non intendevo insultanti, colonnello Dongh — disse, rassegnato. — Vorreste ripetere la domanda, per favore?
— Desidero udire i vostri termini, e poi udrete i nostri, non c’è altro.
Selver ripeté ciò che aveva detto a Gosse.
Dongh ascoltò con evidente impazienza. — D’accordo. Ora, voi non sapete che noi abbiamo una radio funzionante nel recinto prigione: l’abbiamo già da tre giorni.
Selver lo sapeva benissimo, poiché Reswan aveva immediatamente controllato la natura dell’oggetto lanciato dall’elicottero, per timore che fosse un’arma: le guardie gli avevano riferito che era una radio, e lui aveva lasciato che gli uomini se la tenessero. Selver si limitò ad annuire col capo. — E perciò siamo stati in contatto con i tre campi periferici, i due sulla Terra del Re e quello su New Java, per tutto il tempo, e se avessimo deciso di tentare una sortita e di fuggire da quel recinto prigione, sarebbe stato assai semplice farlo: gli elicotteri ci avrebbero gettato le armi e avrebbero coperto i nostri movimenti con le loro armi di bordo; sarebbe bastato un lanciafiamme a farci uscire dal recinto, e in caso di bisogno gli elicotteri hanno anche bombe capaci di far saltare in aria un’intera zona. Voi non le avete mai viste agire, naturalmente.
— Se aveste lasciato il recinto, dove sareste andati?
— Il punto è che, senza introdurre nella presente discussione alcun fattore momentaneamente irrilevante, oppure erroneo, adesso siamo certamente molto superati in numero dalle vostre forze, ma abbiamo i quattro elicotteri dei campi, che voi non avete modo di distruggere, in quanto sono sotto guardia armata in ogni momento, ora, e inoltre abbiamo tutta la potenza di fuoco pesante, cosicché la fredda realtà della situazione è che possiamo dire di essere in parità e parlare da posizioni di reciproca uguaglianza.
"Questa naturalmente è una situazione temporanea. Se necessario, abbiamo il permesso di mantenere un’azione difensiva di polizia per evitare lo scoppio di una guerra. Inoltre, abbiamo dietro di noi l’intera potenza bellica della Flotta Interstellare Terrestre, che potrebbe spazzare via dal cielo il vostro pianeta. Ma queste idee sono intangibili per voi, perciò cerchiamo di limitarci a esprimere nel modo più semplice e chiaro che siamo pronti a negoziare con voi, per il momento, in termini di un uguale schema di riferimenti."
La pazienza di Selver era alquanto corta; sapeva che questa ira era sintomo del deteriorarsi del suo stato mentale, ma non riusciva più a controllarla.
— Andate avanti, allora!
— Bene, per prima cosa, desidero far chiaramente comprendere che non appena abbiamo avuto la radio, abbiamo detto agli uomini degli altri campi di non portarci armi e di non compiere alcun tentativo di salvataggio aereo, e che le rappresaglie erano strettamente fuori luogo…
— Questo è stato prudente da parte vostra. E poi?
Il colonello Dongh fece per ribattere collericamente, ma si fermò; divenne pallidissimo.
— Non c’è nessun posto per sedersi? — chiese.
Selver aggirò il gruppo degli umani, risalì il pendio, entrò nel bungalow di due stanze, vuote, e prese la sedia pieghevole che era accanto al tavolo. Prima di lasciare la stanza silenziosa, si chinò e posò la guancia sulla superficie scabra e rozza di legno della scrivania, dove Lyubov si era sempre seduto quando aveva lavorato con Selver o da solo; alcune delle sue carte erano ancora lì; Selver le sfiorò delicatamente. Portò fuori la sedia e la posò sulla terra resa umida dalla pioggia, per Dongh. Il vecchio si sedette, mordendosi le labbra; i suoi occhi a forma di mandorla erano ridotti a due fessure a causa del dolore.
— Signor Gosse, forse voi potete parlare per il colonnello — disse Selver. — Non si sente bene.
— Parlerò io — disse Benton, facendo un passo avanti, ma Dongh scosse la testa e mormorò: — Gosse.