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Lyubov stesso, era stato laggiù… l’antropologo non può sempre lasciare la propria ombra fuori del quadro da lui ritratto… ma non c’era più stato negli ultimi due mesi. Gli abitanti avevano ricevuto la notizia di Campo Smith, e adesso tra di loro c’erano dei rifugiati, ex schiavi, che avevano subito offese per mano dei terrestri e che ne avrebbero parlato. Ma potevano una notizia e qualche diceria cambiare gli ascoltatori, cambiarli radicalmente?… visto che la loro non-aggressività era così profonda, penetrava fino alle radici della loro cultura e della loro società e proseguiva nel loro inconscio, nel loro "tempo del sogno" e forse nella loro stessa fisiologia?

Che un Athshiano potesse venire spinto, da atroci crudeltà, a un tentativo di omicidio, lui lo sapeva: l’aveva visto succedere… una sola volta. Che una comunità frantumata potesse venire provocata allo stesso modo, da offese altrettanto insopportabili, lui doveva crederlo: era accaduto a Campo Smith. Ma che racconti e chiacchiere riferite, per quanto potessero essere allarmanti o offensivi, potessero far adirare una comunità stabile di quella gente, fino al punto di farla agire contro i loro costumi e la stessa ragione, farla uscire completamente dal loro intero modello di vita, questo non riusciva a credere. Era una cosa psicologicamente improbabile. Qualche elemento doveva essere sfuggito alla sua analisi.

Il vecchio Tubab uscì dalla Loggia, proprio mentre Lyubov le passava davanti. Dietro al vecchio veniva Selver.

Selver uscì strisciando dalla porta-tunnel, si alzò in piedi, batté gli occhi alla luminosità del giorno, resa grigia dalla pioggia, attutita dalle foglie. I suoi occhi scuri incontrarono lo sguardo di Lyubov, quando li alzò. Nessuno dei due parlò. Lyubov provò un profondo timore.

Mentre tornava a casa con l’elicottero, e cercava con l’analisi il nervo che era stato traumatizzato, si chiese: Perché quel timore? Perché ho avuto paura di Selver? Un’intuizione indimostrabile, oppure una semplice falsa analogia? Una cosa irrazionale in qualsiasi caso.

Nulla tra Selver e Lyubov era cambiato. Ciò che Selver aveva fatto a Campo Smith poteva trovare giustificazione; e anche se non avesse potuto trovarne, la cosa non faceva differenza. L’amicizia che li univa era troppo profonda per poter essere toccata dal dubbio morale.

Avevano lavorato insieme, duramente; si erano insegnati reciprocamente, in un senso più che letterale, le loro lingue. Si erano parlati senza riserve. E l’amore di Lyubov nei riguardi dell’amico era reso ancora più profondo da quella gratitudine che il salvatore nutre nei riguardi di colui al quale ha avuto il privilegio di salvare la vita.

Anzi, fino a quel momento lui non aveva compreso fino in fondo quanto fossero profondi l’amore e la fedeltà che provava nei riguardi di Selver. Che la sua paura fosse in realtà la paura personale che Selver, avendo imparato l’odio razziale, potesse rifiutarlo, nonostante la sua fedeltà, e trattarlo non già come un "tu", ma come "uno di quelli"?

Dopo quella prima lunga occhiata, Selver venne avanti lentamente e salutò Lyubov, tendendo le mani.

Il contatto fisico era uno dei grandi canali di comunicazione, per il popolo della foresta. Tra i terrestri, il toccarsi ha sempre grandi probabilità di implicare minaccia o aggressione, e così per loro non c’è nulla, quasi mai, che stia fra i due estremi: la stretta di mano formale e la carezza sessuale. Tutto quello spazio vuoto era riempito, negli Athshiani, da vari costumi di contatto fisico.

La carezza come segnale e come rassicurazione era altrettanto essenziale, in loro, quanto lo è tra madre e figlio o tra due amanti; ma il suo peso era sociale, e non solo materno o sessuale. Faceva parte del loro linguaggio. Pertanto seguiva dei modelli, era codificata, e tuttavia restava infinitamente modificabile.

«Hanno sempre le zampe addosso» li prendevano in giro alcuni coloni, incapaci di vedere in quegli scambi di contatto qualcosa di diverso dal loro erotismo, che, costretto a concentrarsi esclusivamente sul sesso e poi rimosso e frustrato, invade e avvelena ogni piacere sensuale umano, ogni risposta: la vittoria di un Cupido accecato e furtivo sulla grande madre di tutti i mari e tutte le stelle, tutte le foglie degli alberi, tutti i gesti dell’uomo, Venus Genitrix…

Così, Selver venne avanti con le mani tese, strinse la mano di Lyubov alla maniera terrestre, e poi gli afferrò entrambe le braccia e gliele strofinò poco sopra il gomito. Era alto poco più di metà statura di Lyubov, e ciò rendeva difficile e sgraziato ogni gesto per entrambi, ma non c’era nulla di insicuro o di infantile nel tocco di quelle mani piccole, dalle ossa sottili, dal pelo verde, sulle braccia di Lyubov. Era una rassicurazione. Lyubov fu molto grato di riceverla.

— Selver, quale fortuna incontrarti qui. Desidero tanto parlare con te…

— Non posso, ora, Lyubov.

Aveva parlato gentilmente, ma, nell’udire le sue parole, la speranza di Lyubov in un’amicizia immutata svanì. Selver era cambiato. Era cambiato radicalmente: dalla radice, alla lettera.

— Posso ritornare — chiese Lyubov, con insistenza — un altro giorno, e parlare con te, Selver? Per me è importante…

— Oggi lascio questo luogo — disse Selver, ancor più gentilmente, ma staccando la mano dal braccio di Lyubov, e distogliendo anche lo sguardo.

In questo modo si poneva letteralmente fuori contatto. L’educazione chiedeva che Lyubov facesse lo stesso e lasciasse cadere la conversazione. Ma in tal caso non ci sarebbe stato nessun altro con cui parlare. Il vecchio Tubab non aveva neppure alzato gli occhi su di lui; la città gli aveva girato la schiena. E quell’uomo era Selver, che era stato suo amico.

— Selver, il massacro di Kelme Deva, forse tu pensi che esso ci allontani. Ma invece no. Forse ci porta più vicini. E il tuo popolo nei recinti degli schiavi… sono stati messi tutti in libertà, cosicché non ci sono più offese che si separano. E anche se ce ne fossero… ce ne sono sempre state… io sono sempre… io sono l’uomo che sono sempre stato, Selver.

Dapprima l’Athshiano non diede risposta. La sua strana faccia, i grandi occhi profondamente incassati, i lineamenti forti, distorti da cicatrici e confusi dal pelo corto di seta che seguiva e pure oscurava ogni contorno, questa faccia era voltata dall’altra parte rispetto a Lyubov, chiusa, ostinata. Poi, tutt’a un tratto, girò lo sguardo, come se lo facesse a dispetto delle proprie intenzioni.

— Lyubov, non dovevi venire qui. Devi lasciare la Centrale, tra due notti. Non so che cosa tu sia. Sarebbe stato meglio che non ti avessi mai conosciuto.

E con questo si allontanò: un passo leggero come quello di un gatto dalle lunghe gambe, un guizzo verde, tra le querce scure di Tuntar, sparito. Tubab si avviò lentamente dietro ai suoi passi, anche ora senza degnare Lyubov di un solo sguardo. Una fine pioggerellina cadeva senza rumore sulle foglie di quercia e sugli stretti sentieri che portavano alla Loggia e al fiume. Solo se ascoltavate attentamente potevate udire la pioggia: una musica che si alzava da una moltitudine troppo vasta perché una sola mente potesse afferrarla, un singolo accordo interminabile suonato sull’intera foresta.

— Selver è un dio — disse la vecchia Sherrar. — Adesso vieni a vedere le reti da pesca.

Lyubov declinò l’invito. Sarebbe stata cattiva educazione e cattiva politica fermarsi; e poi lui non ne aveva cuore.

Cercò di dire a se stesso che Selver non aveva rifiutato lui, Lyubov, bensì lui in quanto terrestre. Ma non faceva differenza. Non la fa mai.

Lui era sempre spiacevolmente sorpreso nello scoprire quanto fossero vulnerabili i suoi sentimenti, quanto lo ferisse il rimanere ferito. Questa sorta di sensibilità da adolescente era una vergogna, ormai avrebbe dovuto avere una pelle più coriacea.

La piccola vecchietta, con la sua pelliccia verde tutta spolverata e inargentata di gocce di pioggia, sospirò di sollievo quando lui le disse addio. Mentre metteva in moto l’elicottero, si trovò a sorridere alla vista di lei che zoppicava via, tra gli alberi, con tutta la velocità che le era possibile, come una piccola rana che fosse riuscita a sfuggire a un serpente.

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