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«Forse l’ho già capito», disse Dirk.

Scese tra di loro un lungo silenzio mentre erano in piedi sulla roccia scivolosa di muschio, a mezzo metro l’uno dall’altro e si fissavano negli occhi. Janacek sorrideva leggermente, con lo sguardo abbassato verso Dirk. Sotto di loro il fiume scorreva instancabile ed il rumore dell’acqua li invitava ad affrettarsi.

«Tu non sei un uomo terribilmente debole, t’Larien», disse alla fine. «Sì, sei debole, lo so, ma nessuno ti ha mai chiamato forte».

In un primo momento pareva quasi un insulto, ma pareva anche che il Kavalar volesse dire qualcos’altro. Dirk si soffermò a pensarci e trovò anche un secondo significato. «Dà un nome ad una cosa?», disse. sorridendo.

Janacek annuì. «Ascoltami, Dirk. Non lo ripeterò un’altra volta. Ricordo quando per la prima volta da ragazzo a Ferrogiada, venni messo in guardia dai falsuomini. Una donna, una eyn-kethi… tu la chiameresti mia madre, anche se tale distinzione non ha alcun peso sul mio mondo… questa donna mi ha raccontato la leggenda. Però me ]’ha raccontata in maniera diversa. I falsuomini contro cui mi mise in guardia non erano demoni di cui avrei appreso più tardi dalle labbra degli altolegati. Questi erano semplici uomini, mi disse lei, non mostri alieni, non parenti di licantropi o succhiatori d’anima. Eppure erano persone che cambiavano aspetto, in un certo senso, dato che non avevano una vera forma. Erano uomini di cui non ci si poteva fidare, uomini che avevano dimenticato i loro codici, uomini senza vincoli. Non erano reali; erano semplici illusioni di umanità prive di sostanza. Mi capisci? La sostanza dell’umanità… è un nome, un vincolo, una promessa. È qualcosa che si ha dentro eppure la portiamo tra le braccia. Così mi disse. Ecco perché i Kavalari prendono un teyn, aveva aggiunto, ed escono a coppie… perché… perché l’illusione si può materializzare in fatti se viene vincolata nel ferro».

«Un bel discorso, Garse», disse Dirk quando l’altro ebbe finito. «Ma che effetto può avere l’argento sull’anima di un falsuomo?».

Sul viso di Janacek passò un’ombra di rabbia, come un’unica nuvola di temporale che passa e si allontana. Poi rise. «Avevo dimenticato il tuo umorismo da Kimdissi», disse. «Un’altra cosa che ho imparato in gioventù è stata quella di non discutere mai con un manipolatore». Rise, allungò una mano ed afferrò la mano di Dirk brevemente ma strettamente. «Basta», disse. «Non ci incontreremo mai da soli, comunque potrò ancora essere tuo amico se tu sarai capace di restare keth».

Dirk si strinse nelle spalle e si sentiva stranamente commosso. «Va bene», disse.

Ma Garse si era già allontanato. Aveva lasciato il braccio di Dirk, aveva stretto le dita nel palmo della mano e si era sollevato di un metro, poi si spostò al di sopra dell’acqua, muovendosi in fretta, piegato in avanti, volando agile ed elegante nell’aria. La luce del sole brillava sui suoi lunghi capelli rossi ed i suoi vestiti parevano muoversi e lampeggiare, cambiando colore. A metà del fiume gettò indietro il capo e gridò qualcosa a Dirk, ma il rumore e la velocità della corrente portarono via le sue parole e Dirk afferrò soltanto il tono: una ridente esaltazione, sanguinosa.

Rimase ad osservare finché Janacek non raggiunse l’altra parte del fiume, come se fosse troppo stanco per alzarsi subito in volo. La mano libera si infilò nella tasca del giubbotto e toccò la gemma mormorante. Non gli sembrava più fredda come prima e le promesse — oh, Jenny! — arrivarono, ma erano deboli.

Janacek galleggiava sopra gli alberi gialli, in un cielo grigio purpureo e la sua figura si faceva rapidamente più piccola.

Dirk lo seguì, stancamente.

Janacek poteva anche disprezzare gli scooter dicendo che erano giocattoli, però sapeva come farli volare. Si trovò subito in testa, ben lontano da Dirk, cavalcando il vento costante, a venti metri sopra la foresta. La distanza tra di loro parve incrementarsi regolarmente; al contrario di Gwen, Janacek non si fermava ad aspettare che Dirk lo raggiungesse.

Dirk si accontentò del suo ruolo di inseguitore. Il Ferrogiada si vedeva con facilità — c’erano solo loro nel cielo cupo — per cui non c’era nessun pericolo di perdersi. Dirk cavalcò di nuovo i forti venti Cupoli, accettando la spinta costante da dietro mentre si abbandonava a pensieri senza senso. Fece strani sogni ad occhi aperti, di Jaan e Garse, di vincoli di ferro e di gemme mormoranti, Di Ginevra e Lancillotto, che erano stati tutti e due — se ne rese conto all’improvviso — persone che avevano spezzato i vincoli.

Il fiume scomparve. Laghi tranquilli passavano e sparivano assieme ai cerchi di funghi bianchi posati sulla foresta come croste. Udì l’abbaiare dei cani di Lorimaar una volta, lontani dietro di lui. I deboli rumori gli erano portati dal vento. Non si sentiva preoccupato.

Voltarono verso sud. Janacek era un piccolo punto, nero, emetteva lampi argentei quando un raggio di soie colpiva la piattaforma su cui volava. Più piccolo, sempre più piccolo. Dirk lo seguiva, come un uccello fiacco. Alla fine Janacek cominciò a scendere a spirale, fino a livello degli alberi.

Era una regione selvaggia. Molto più rocciosa che altrove, con alcune colline ondulate ed affioramenti di rocce nere striate d’oro e d’argento. I soffocatori erano dappertutto, soffocatori e solo soffocatori. Gli occhi di Dirk si voltarono da una parte e dall’altra cercando un boscargento alto, un vedovo azzurro o un sottile, cupo albero spettro. Un labirinto giallo si stendeva ininterrotto da un orizzonte all’altro. Dirk sentiva i versi frenetici degli spettri d’albero e li vide sotto i suoi piedi che spiccavano brevi voli su piccole ali.

L’aria attorno a lui tremò al suono di una banscea che piangeva ed un brivido di freddo passò sulla schiena di Dirk, senza alcuna ragione apparente. Guardò rapidamente in alto, distante e vide un impulso luminoso.

Breve, pulsante nei suoi occhi stanchi e troppo intenso. Questo improvviso dito luminoso non era di questo mondo, apri di qui, non di questo grigio pianeta crepuscolare. Non gli apparteneva, ma c’era stato. Aveva colpito una sola volta venendo dal basso, un furioso fuoco sottile che subito si era perduto nel cielo.

Di fronte a lui Janacek pareva una piccola bambola di stracci accanto alla luce. Il sottile filo scarlatto lo aveva toccato, aveva colpito la piattaforma d’argento su cui posava i piedi, leggero e veloce. L’immagine persistette negli occhi di Dirk. Assurdamente Janacek cominciò a cadere, agitando le braccia. Dalle mani gli usci un bastone nero, roteando e lui scomparve tra i soffocatori, schiantandosi tra i rami intrecciati.

Rumori. Dirk senti dei rumori. Musica su questo interminabile vento invernale. Legno che si spezzava, seguito da grida di dolore e di rabbia, animali e umani, umani e animali, un po’ l’uno e un po’ l’altro e nessuno dei due. Le torri di Kryne Lamiya luccicavano sopra l’orizzonte, simili al fumo e trasparenti e gli cantavano una canzone di morti.

Le grida cessarono all’improvviso; le torri bianche svanirono e la bufera che lo spingeva avanti ne sparse i frammenti. Dirk scese in basso e sollevò il laser.

C’era un buco nero nel fogliame, dove era caduto Garse Janacek: rami gialli contorti e spezzati, un buco sufficiente a far passare il corpo di un uomo. Nero. Dirk si librò al di sopra, ma non riuscì a vedere Janacek o il terreno della foresta, perché le ombre erano fittissime. Ma sul ramo più alto vide un pezzo di vestito strappato che vibrava nel vento e cambiava colore. Al di sopra un piccolo spettro stava solennemente di guardia.

«Garse!», gridò, senza preoccuparsi del nemico che c’era sotto, l’uomo che aveva usato il laser. Gli spettri d’albero gli risposero con un coro di cinguettìi.

Udì dei rumori sotto gli alberi; la luce del laser brillò di nuovo, accecante. Questa volta non verso l’alto, ma orizzontamente, come un raggio di sole impossibile nel buio là sotto. Dirk rimaneva immobile e indeciso. Uno spettro d’albero apparve sul ramo proprio sotto di lui. stranamente coraggioso, che lo osservava con occhi liquidi, con le ali aperte strimpellando nel vento. Dirk puntò il laser e sparò, finché la bestiola non fu altro che una macchia di fuliggine sulla corteccia gialla.

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