Il vento gridava attorno all’aerauto e Dirk tenne un momento l’asta di controllo in modo che Gwen avesse tempo di legarsi i lunghi capelli neri dietro. Anche la sua zazzera grigio-bruna andava da tutte le parti come se fosse presa da folli convulsioni mentre correvano per il cielo, ma era così concentrato nei suoi pensieri che nemmeno se ne accorgeva, non gli davano nemmeno fastidio.
Gwen mantenne l’apparecchio alto al di sopra delle montagne e si diresse verso sud. Il placido Comune con le tonde colline erbose ed i fiumi tortuosi si stendeva in distanza alla loro destra, fin dove il cielo scendeva a toccarlo. Lontano sulla sinistra, quando le montagne si abbassarono, riuscirono a scorgere il bordo delle foreste. Anche da così in alto si vedevano le aree infestate dai soffocatori… gialli cancri che si stendevano in mezzo al verde scurissimo.
Camminarono per quasi un’ora. Dirk era perduto nei suoi pensieri e cercava di mettere una cosa assieme all’altra senza riuscirci. Alla fine Gwen lo fissò con un sorriso. «Mi piace volare con l’aerauto», disse. «Anche con questa, Mi fa sentire libera e pulita, al di fuori di tutti i problemi che ci sono laggiù. Capisci cosa voglio dire?».
Dirk annuì. «Sì. Non sei la prima a dire una cosa del genere. C’è un mucchio di gente che ha le stesse sensazioni. Anch’io».
«Sì», disse lei. «Di solito ti portavo a spasso, ti ricordi? Su Avalon? Avrei volato per ore ed ore, dall’alba a! tramonto e tu te ne stavi seduto con un braccio fuori dal finestrino e guardavi lontano ed in basso con lo sguardo sognante sul viso». Lei sorrise ancora.
Lui se ne ricordava. Quei viaggi erano stati specialissimi. Non avevano mai parlato molto, solo ogni tanto si guardavano e tutte le volte che i loro occhi si incontravano, ridevano. Era inevitabile; anche se lui cercava di non farlo, quella risata arrivava sempre. Ma adesso sembrava tutto terribilmente lontano e perduto.
«Perché hai pensato a questo?», chiese lui.
«Sei stato tu che me lo hai fatto pensare», disse lei e fece un gesto. «Te ne stai seduto comodamente. Ah, Dirk. Tu stai barando, lo sai. Penso che tu l’abbia fatto apposta, per farmi pensare ad Avalon, per farmi sorridere e per farmi desiderare di abbracciarti ancora. Bah».
E risero assieme.
E Dirk, quasi senza pensarci, si avvicinò all’altro sedile e le mise un braccio attorno. Lei lo guardò in faccia brevemente, poi si strinse nelle spalle ed il cipiglio si trasformò in un sospiro rassegnato ed alla fine in un sorriso riluttante. E non si scostò.
Andarono a vedere le città.
La città del mattino era una tenera visione color pastello incastonata in un’ampia valle verde. Gwen fece posare l’aerauto al centro di una piazza a terrazzi e percorsero a piedi i grandi viali per un’ora. Era una città graziosa, ricavata da delicati marmi venati di rosa e pallide pietre. Le strade erano larghe, a curve sinuose, gli edifici bassi e parevano delle fragili strutture di legno levigato e di vetri sporchi. Dappertutto trovarono piccoli parchi ed ampi viali, e in ogni luogo c’era dell’arte: statue, dipinti, murali sui marciapiedi e sui lati delle costruzioni, giardini rocciosi ed alberi-scultura ancora vivi.
Ma ormai i parchi erano desolati ed era cresciuta un’erba selvatica verdazzurra. Rampicanti neri strisciavano lungo i marciapiedi, le colonne ai margini del parco erano state quasi tutte spogliate ed i più robusti alberi-scultura erano cresciuti formando immagini grottesche che i loro creatori non si sarebbero mai sognati.
Un fiume azzurro che si muoveva lentamente divideva e suddivideva la città, muovendosi da una e dall’altra parte seguendo un corso sinuoso e ritorto come le strade lungo le sue rive. Gwen e Dirk si sedettero per un po’ presso l’acqua, all’ombra di un ponte pedonale di legno cesellato ed osservarono il riflesso di Grasso Satana che galleggiava rosso e pigro sull’acqua. E mentre erano lì seduti, lei gli raccontò di come era un tempo la città, ai giorni del festival, prima che entrambi venissero su Worlorn. L’aveva costruita il popolo di Kimdiss, disse lei, e l’avevano chiamata Dodicesimo Sogno.
Forse adesso la città stava sognando. Se così era, questo sarebbe stato il suo sogno finale. Le sue sale a volta echeggiavano vuote, i suoi giardini erano giungle cupe che presto sarebbero diventate cimiteri. Dove un tempo le strade risuonavano di risa, ora l’unico suono era il rugginoso fruscio delle foglie morte soffiate via dal vento. Se Larteyn era una città morente, rifletté Dirk mentre se ne stava seduto sotto il ponte, allora Dodicesimo Sogno era una città morta.
«Arkin voleva mettere qui la base della nostra operazione», disse Gwen. «Però noi abbiamo opposto il nostro veto. Se lui ed io dovevamo lavorare assieme, era certo meglio che abitassimo nella stessa città ed Arkin avrebbe voluto che fosse Dodicesimo Sogno. Per me non andava bene e non so se mi abbia perdonato. I Kavalari hanno costruito Larteyn come una fortezza ed i Kimdissi hanno fatto questa città come un’opera d’arte. Nei vecchi giorni era anche più bella, immagino. Hanno smantellato gli edifici migliori ed hanno tolto le sculture più belle dalle piazze quando è finito il festival».
«Tu hai votato per Larteyn?», disse Dirk. «Per abitarci?».
Lei scosse il capo. I suoi capelli, che adesso non erano legati, oscillarono leggermente e toccarono Dirk che sorrise. «No», disse lei. «Jaan lo voleva ed anche Garse. Io… be’, nemmeno io ho votato per Dodicesimo Sogno. Non avrei mai potuto abitare qui. Il sentore di putredine è troppo forte. Sono d’accordo con Keats, sai. Non c’è niente che sia così melanconico come la morte della bellezza. C’era molta più bellezza qui di quanta ce ne sia mai stata a Larteyn, anche se Jaan brontolerebbe a sentirmelo dire. Questo è il posto più triste, quindi. Inoltre, a Larteyn c’è un po’ di compagnia, perlomeno, anche se si tratta di Lorimaar e della sua banda. Qui non è rimasto nessuno, tranne i fantasmi».
Dirk guardò dall’altra parte dell’acqua, dove il grande sole rosso, dissanguato e catturato, ballonzolava misteriosamente sulle onde lente. E quasi si riuscivano a vedere i fantasmi di cui lei aveva parlato, spiriti che si affollavano presso le rive da entrambi i lati e cantavano lamenti per cose da gran tempo perdute. E ce n’era anche un altro, uno spettro unicamente suo: un barcaiolo di Braque, che scendeva lungo il fiume, spingendo un lungo palo nero. Veniva per Dirk, quel barcaiolo, e si avvicinava, si avvicinava. E la barca nera che guidava era bassa sull’acqua, piena fino all’orlo di vuoto.
Così si alzò e spinse via Gwen, senza dir niente, ma voleva andarsene via. Ed essi fuggirono dai fantasmi, verso il terrazzo dove li attendeva l’aerauto grigia.
Poi furono di nuovo in alto, per un secondo interludio di vento e di cielo e pensieri silenziosi. Gwen volò ancor più a sud e poi ad est e Dirk si guardava attorno, pensava ed era tranquillo. Ogni tanto lei lo avrebbe guardato e, senza volerlo, avrebbe sorriso.
Alla fine giunsero al mare.
La città del pomeriggio era stata costruita lungo la riva di una baia frastagliata dove delle onde crestate verdescuro si rompevano contro pontili putridi. Un tempo si era chiamata Musquel-Marina, disse Gwen mentre le giravano attorno in lente spirali avvolgenti. Anche se era stata costruita con le altre città di Worlorn, c’era un’aria di antico lì attorno. Le strade di Musquel erano come serpenti dalla schiena spezzata, tortuosi viali rappezzati su cui si sporgevano torri di mattoni multicolori. Era una città di mattoni. Mattoni azzurri, mattoni rossi, gialli, verdi, arancioni, mattoni dipinti, a strisce ed a pallini, mattoni messi assieme con cemento nero come l’ossidiana, oppure rosso come Satana nel cielo, sbattuti assieme in pazzesche forme contrastanti. Anche più vistosi erano i tendoni dipinti delle bancarelle dei mercanti ancora allineate nelle strade di transito ed abbandonate sui deserti moli di pietra.