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— Sì — rispose senza esitare Alec.

Douglas scese dalla jeep e si diresse alla porta della casamatta. La guardia saltò a terra e si mise accanto ad Alec. Infilò la pistola nella fondina, ma tenne la mano sul calcio. Alec scese a sua volta e si accinse ad aiutare Angela, ma lei saltò a terra dall'altra parte.

Intanto Douglas aveva già aperto la pesante porta di metallo e Alec rimase un po' seccato perché non aveva notato se la porta avesse o no una serratura. Non fa niente, decise, la faremo saltare, se necessario.

L'interno, buio e umido, era costituito da un unico locale non molto grande, completamente vuoto e illuminato solo dalla luce che entrava attraverso le feritoie.

— Ehi, ti spiace? — disse Douglas indicando una botola di metallo inserita nel pavimento di cemento. — Faccio fatica a chinarmi.

Alec afferrò l'anello di metallo inserito su un lato della botola, e tirò: niente. Provò a sollevare la lastra: niente ancora.

— È scorrevole — gli spiegò Douglas.

— Grazie per avermelo detto prima che mi rompessi una vena per lo sforzo. — La lastra scivolò senza difficoltà. Era stata lubrificata di recente.

Scesero la ripida scala di metallo che si perdeva nel buio sottostante tastando il muro con una mano e aggrappandosi alla ringhiera con l'altra, finché Douglas non disse: — Un momento… l'interruttore del generatore dev'essere qui.

Un clic e da un punto imprecisato nel buio sottostante si levò il borbottio di un generatore diesel. Alec sentì una sbuffata di olio lubrificante, poi le luci si accesero.

Vide che la scala scendeva ancora per un'altra ventina di metri e finiva in un enorme magazzino. Sul pavimento erano posati molti pesanti cilindri di metallo grigio opaco, con l'emblema triangolare rosso del pericolo e le parole MATERIALE RADIOATTIVO. Ce n'erano a dozzine. Alec cercò di contarli e calcolò che assommavano almeno a un centinaio.

Abbastanza per fornire energia agli impianti lunari per cento e più anni.

Come se gli avesse letto nel pensiero, Douglas disse: — Ci sono materiali fissili bastanti per distruggere tutta la zona fra i Grandi Laghi e Cape Cod.

Alec si voltò verso suo padre che stava due gradini più sopra. — Ne abbiamo bisogno… almeno di qualcuno. Ci sono indispensabili per sopravvivere.

Ma Douglas scosse la testa: — No. Se te ne lasciassi portare qualcuno sulla Luna, li uccideremmo. Si può uccidere la gente anche con la gentilezza. Il tipo di gentilezza sbagliato.

Alec aveva i nervi tesi. Si sentiva in procinto di scattare: — Se entro un anno non potremo disporre dell'energia per produrre l'acqua e i medicinali… Tu non puoi…

— Non dirmi quello che posso o non posso fare! — la voce di Douglas rimbombò contro le pareti di cemento e la scala di metallo. — Quella gente, lassù, non può sopravvivere con le sue forze anche se disponesse di una gran quantità di materiali fissili. Non può continuare a vivere stipata in quel nido da topi. Deve rimettersi in contatto con la Terra, non limitandosi a un'incursione ogni tanto, ma mantenendo contatti costanti… geneticamente utili.

— E così tu li potresti comandare — disse Alec

Per tutta risposta, Douglas scoppiò in una sonora risata

Alec fu alloggiato in una stanza di quelli che un tempo erano gli alloggi per ufficiali scapoli della Base. Era una stanza spaziosa, al secondo piano di un edificio di mattoni, ammobiliata con un letto, una scrivania e un cassettone. Alec sorrise fra sé: non aveva niente da mettere nei cassetti, né da appendere nell'armadio a muro.

In compenso c'era la doccia. E funzionava. Alec ci passò un'ora intera per godersi l'inestimabile piacere di disporre di acqua calda a volontà. Accanto alla doccia erano appesi due asciugamani di spugna e stava strofinandosi vigorosamente il petto quando qualcuno bussò. Avvolgendosi nell'asciugamano, Alec disse: — Avanti! — e uscì dal bagno mentre Angela apriva la porta della stanza con una bracciata di indumenti.

— Oh… — dissero all'unisono.

Lei rimase sulla soglia per guardarlo a bocca aperta. Alec si strinse addosso l'asciugamano, imbarazzatissimo.

— Stavo dandomi una ripulita… — balbettò.

Lei sorrise, facendolo arrossire: — Lo vedo. — Indossava un abito celeste che ben si accordava col colore degli occhi e col biondo dei capelli. La sottana corta lasciava scoperte le gambe snelle e ben fatte.

— Sei molto carina — disse lui.

— Anche tu — disse lei, ridacchiando.

Lui tacque, più imbarazzato che mai.

— Ti ho portato qualcosa da metterti indosso — disse Angela. — Spero di aver indovinato la misura.

— Grazie.

Lei depose gli indumenti sul letto, e guardandosi in giro chiese: — Va tutto bene? Ti serve qualcos'altro?

— No, grazie. Però avrei fame. C'è modo di mangiare qualcosa? Tu hai già pranzato?

— La mensa si aprirà fra un'ora. Ma se hai tanta fame posso prepararti subito qualcosa a casa mia. È qui vicino.

— Oh, no, grazie, posso aspettare. Intanto mi vesto.

— Va bene. — Angela si avviò alla porta.

— No, aspetta! Per amor del cielo, ci stiamo comportando come due idioti! Ti prego, non andartene.

Lei annuì con un sorriso.

Sentendosi sempre impacciato, Alec prese il fagotto dei vestiti e andò in bagno. La maglia a coste a collo alto, blu scuro, gli andava bene. I calzoni grigi erano larghi in vita e così lunghi che dovette rivoltare il fondo delle gambe. Gli scarponi, solidi, erano invece della misura giusta. Strinse la cintura in vita e uscendo dal bagno chiese: — Come sto?

Lei sorrise scrollando la testa: — Non mi pare proprio di avere indovinato la taglia giusta.

— Solo per i calzoni. Il resto va benissimo.

Mangiarono nella sala della mensa, rumorosa e affollata, seduti su una delle panche disposte lungo i lunghi tavoli di legno, circondati dal vapore, dagli odori pungenti e dagli altri che chiacchieravano senza far caso a loro.

Il cibo era caldo e nutriente, e pur non avendo niente di speciale, quello fu il pasto migliore che Alec consumò dal suo arrivo sulla Terra.

Dopo mangiato uscirono per andare a casa di Angela, un villino in fondo a una fila di altre costruzioni simili, dove un tempo avevano alloggiato le famiglie degli ufficiali.

— Ho un po' di vino — disse lei. — Lo fanno i contadini al villaggio.

L'interno era piuttosto spoglio. Nel soggiorno c'era solo una vecchia sedia di legno con lo schienale alto e un tappeto fatto con la pelliccia di qualche animale, arrotolato in un angolo. Il caminetto era spento e vuoto. Angela condusse Alec in cucina dove c'erano un tavolo e tre sedie scompagnate, un frigorifero, cucina e lavello. Attraverso una porta aperta Alec poté dare un'occhiata nella camera da letto: c'era solo un materasso per terra con un sacco a pelo steso sopra.

— Vivi qui da sola?

— Sì — disse lei chinandosi per prendere da uno stipo sotto il lavandino una bottiglia verde coperta di polvere. — Mi ci sono trasferita qualche settimana fa. Pa… cioè, Douglas ha detto che era ora che avessi una casa tutta per me. Lui abita all'altro capo della strada. Anche Will e tutti quelli che hanno famiglia abitano qui.

— Will ha famiglia?

Angela posò la bottiglia sul tavolo e prese due bicchieri dallo stipo. — No, lui no. Doveva sposarsi con una ragazza di un villaggio a ovest di qui, ma lei fu rapita da una banda di razziatori e non fu mai più ritrovata.

— Mi dispiace — disse Alec sinceramente colpito.

Angela posò i bicchieri e sedette vicino a lui. — Oh — disse — è successo tanti anni fa… Bene, vuoi versare tu?

Alec prese la bottiglia e tolse il turacciolo. Com'era strano, morbido, spugnoso. Che sia sughero?, pensò. Aveva letto o sentito parlare di quella sostanza, ma non l'aveva mai vista. Riempì i bicchieri. Il vino, di un rosso rubino, era delizioso. Andava giù e dava calore.

— Questo mondo è brutto — disse poi posando il bicchiere e pensando a quello che era capitato a Will. — Ma non è l'unico. Ce n'è uno completamente diverso dove non esistono banditi, dove non si uccide la gente per derubarla.

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