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Girandosi sulla sella per godersi lo splendido paesaggio autunnale della Madre Terra e il fulgore anche più spettacolare del fiammeggiante tramonto Alec capì perché qualcuno dei suoi desiderasse restare lì. Uno stormo di uccelli che volava in formazione a V indusse Angela a commentare: — Sta arrivando l'inverno.

Alec annuì. Gli uccelli si dirigevano a sud. Li seguì con lo sguardo finché non scomparvero nel cielo rosso e viola del giorno morente.

Riprese con uno sforzo il filo dei propri pensieri. Lassù non c'è l'inverno. Come se la cava mia madre? Riesce ancora a dominare Kobol? Il Consiglio continua a esserle sottomesso?

Ma mentre si poneva queste domande Alec si ritrovò a guardare Angela che gli cavalcava accanto, ondeggiando lentamente, semi-assopita mentre il cavallo procedeva sul versante della collina coperto da un tappeto di foglie.

Raggiunsero la sommità dell'ultimo colle, e di lassù Alec poté scorgere l'avamposto. Era piccolo. Non poteva contenere più di venti uomini. Una palizzata di tronchi sormontata da filo spinato lo recingeva. Il cancello era aperto ma sorvegliato da due giovani dall'aria sveglia, con una carabina in spalla.

Anche nell'incerta luce del crepuscolo riconobbero Angela, quando lei si avvicinò.

— Angie! Credevamo che ti avessero fatto prigioniera al villaggio. Ci sono molti banditi da queste parti…

— Sto bene — rispose lei con un sorriso smontando di sella. — I banditi se ne sono andati. Questo è Alec. Viene dal villaggio. Mi ha accompagnato per proteggermi.

I due giovani scambiarono una stretta di mano con Alec. Erano ragazzi, non potevano avere più di quindici anni, ma avevano un piglio sicuro, e nonostante le assicurazioni di Angela scrutarono attentamente Alec.

All'interno del recinto c'erano due vecchi pezzi d'artiglieria montati su ruote di legno, col muso tozzo puntato verso il cielo. Alec aveva visto la foto di quel tipo di armi nei microfilm di storia. Sparavano voluminosi proiettili inerti pieni di esplosivo ad alto potenziale. Accanto ad ogni pezzo c'era un certo numero di bombe. Alec stimò che dovessero occorrere un paio di uomini per sollevarne una. Le contò, erano dodici in tutto. Dovevano essere antiche come i cannoni, e di difficile fabbricazione. Inoltre c'erano molte altre armi più piccole: mitragliatrici piazzate sui muretti, piccoli lanciarazzi, canistri con la scritta INFIAMMABILE dotati di manichette che terminavano con boccagli a forma di impugnatura.

Dissellarono i cavalli e si caricarono in spalla le sacche. In quella di Alec c'era anche la radio. Uno dei ragazzi portò i cavalli in un ricovero coperto pieno di fieno.

L'altro li scortò lungo una stretta gradinata scavata nel terreno, che portava a un complesso di bunker al di sotto dell'avamposto.

Il comandante era un uomo anziano, dai capelli grigi. — Tuo padre ha sguinzagliato dozzine di uomini per cercarti — disse in tono di rimprovero ad Angela, come se parlasse a una bambina scappata nei boschi.

— Allora è meglio che gli comunichi subito per radio che sono qui e sto bene — disse lei.

Il comandante annuì e li accompagnò in sala radio. Le apparecchiature erano antiquate e voluminose. Alec rimase sulla soglia insieme al comandante a osservare il generatore e i cavi di collegamento, mentre Angela diceva al marconista di mettersi in comunicazione col quartier generale. Quando ebbe finito di parlare, si tolse la cuffia e si voltò. — E già uscito con Will Russo — disse rivolta ad Alec. — Gli mandano un uomo per dirgli che sto bene.

— Immagino che passerete la notte qui — disse il comandante senza entusiasmo.

— Sì, preferisco non viaggiare di notte.

Il comandante cedette ad Angela la sua branda, situata in una nicchia della stanza più grande del bunker. Poi accompagnò Alec in un altro locale collegato al precedente da un angusto tunnel basso e lungo pochi metri, dove c'era una fila di lettini, e gliene indicò uno.

Mangiarono nella stanza grande col comandante e gli altri sei uomini. Pareva che tutti conoscessero bene Angela, ma nessuno le chiese cosa fosse successo al villaggio. Dopo mangiato ognuno se ne andò per i fatti suoi. Alec si sdraiò sul lettino e si addormentò subito.

Si svegliò sentendo russare. La stanza era buia. Quando i suoi occhi si adattarono alla luce fievole che veniva dall'imbocco del corridoio vide che gli altri lettini erano occupati da uomini immersi nel sonno, e che in quello vicino al suo dormiva il comandante.

Con circospezione, senza far rumore, Alec si alzò e prese la sacca che aveva infilato sotto al letto. Poi, tenendosi chino, scivolò in punta dei piedi nel corridoio e arrivò nella stanza principale. Era vuota, illuminata da una lampadina nuda appesa a un filo che pendeva dal soffitto. Il generatore ronzava sommessamente, e Alec sorrise a quel rumore amico. Trasse di tasca un orario consunto scritto a mano e controllò con cura i dati. Fra mezz'ora il satellite sarebbe salito sopra l'orizzonte.

Dopo aver esitato per qualche secondo, Alec risalì i gradini di terra e sporse la testa dall'unico ingresso del bunker. Quattro uomini montavano la guardia, annoiati e infreddoliti, e altri due sedevano parlando a bassa voce fra loro accanto al fuoco.

Alec tornò indietro. Angela dormiva dietro la tenda che isolava la nicchia. Tutto andava per il meglio.

Alec tornò nella stanza dove si trovava la radio, e chiuse la porta constatando con disappunto che non c'era serratura. Infine posò la ricetrasmittente sul banco, e la collegò al generatore. Infilò la cuffia e si portò il microfono alla bocca. Aspettò un'eternità prima di udire il segnale automatico del satellite, sui sibili e i crepitii della statica, ma finalmente quell'eternità ebbe termine. — Pronto, pronto — disse senza alzare troppo la voce. — Pronto, satellite, rispondete. Qui Alec Morgan.

Un'altra eternità lunga qualche secondo, poi: — Alec… Alec… Sei proprio tu?

— Sì, mi senti?

— Debole ma chiaro. Parla.

Alec diede le coordinate approssimative della sua posizione, e continuò: — Avverti il Consiglio che mi mandi tutti i rinforzi che può radunare, il più presto possibile. Al massimo entro la settimana. Possiamo localizzare i materiali e prenderli, se fate presto. Di' a mia madre che una mossa decisiva da parte nostra può risolvere tutto per il meglio. Inviatemi batterie, armi e munizioni. Le troverò se potrete lanciarle in un raggio di dieci chilometri dal punto dove mi trovo.

— Va bene, ma…

— Niente ma. Voglio quanti più uomini potete mandarmi. Uomini, armi, veicoli…

— È quello che stavo cercando di dirti. Kobol è partito con cento uomini, un paio di settimane fa — disse la Voce dal satellite. — Autoblindo, razzi, tutto. Con cinque navette.

— Kobol! Due settimane fa? Dove? Dove sono scesi?

— Molto a sud…

— A Oak Ridge?

— No, più a sud. In un posto che mi pare si chiami Florida.

Alec era sbalordito.

— Ehi, Alec, sei ancora lì?

— Sì, sì… ascolta. Riferisci a mia madre che mi trovo a poche ore di marcia dal quartier generale di Douglas, dove si trovano i materiali. Dille che mandi qui i rinforzi. Che ordini a Kobol di farlo, perché io sono ancora il capo della missione, per ordine del Consiglio.

— Sissignore — la voce prese un tono formale.

— Bene, e fatemi avere subito un generatore. È indispensabile che ristabilisca le comunicazioni entro ventiquattr'ore, e senza energia non posso farlo.

— Provvederemo.

Alec chiuse la comunicazione, e rimase lì seduto a lungo, chiedendosi cosa stesse facendo Kobol e perché. Ma era troppo stanco per concentrarsi. Staccò la ricetrasmittente, e uscì lasciando la porta aperta come l'aveva trovata.

Appena entrato nella stanza principale, vide Douglas seduto al tavolo, con accanto Angela, che gli scoccò un'occhiata di fuoco.

— Vedo che ce l'hai fatta a resistere per tutta l'estate — disse Douglas. Sorrideva, ma la voce era mortalmente seria.

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