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Tutti risero e l'autoblindo si rimise in moto. Ma Alec non poteva fare a meno di pensare: Lui è lì, da qualche parte, che ci aspetta. E non è solo.

Nelle ore successive chiamò due volte Ron Jameson all'aeroporto. Laggiù tutto era tranquillo, e gli uomini dormivano a turno.

Alec scoprì che anche i suoi uomini sonnecchiavano aggrappati alle varie parti dell'auto, o sdraiati se trovavano una superficie abbastanza grande. Dopo avere chiamato Jameson per la seconda volta, prese la guida del mezzo perché il conducente potesse riposarsi un po'. Anche Kobol si era appisolato, con la testa china sul petto che ciondolava a ogni scossa.

Nello schermo agli infrarossi che gli stava davanti la strada si stendeva come un nastro arancione punteggiato di crepe e buche. Il fogliame ai due lati era rosa, e i piccoli animali che comparivano ogni tanto erano rossi.

— Chi è all'arma? — chiese al microfono.

— Gianelli.

— Sei sveglio?

— Per forza. Gli occhiali agli infrarossi sono così pesanti che mi danno il mal di testa. Non potrei dormire neanche se volessi.

— Bene.

— Lieto di sentire che il capo si preoccupa per me.

Alec rise. — Tu bada a tenere gli occhi aperti. Io guardo avanti, tu guarda dietro.

— Sì, lo sto già facendo. Tutto immobile, salvo qualche altro cervo.

— Sei sicuro che fossero cervi?

Gianelli ridacchiò piano. — A meno che ci siano uomini che attraversano la strada saltando sulle quattro zampe.

Alec era ancora alla guida quando raggiunsero la sommità di un'altura e i sensori captarono il calore irradiato dal complesso di Oak Ridge, che poco dopo si delineò sullo schermo. Alec guardò l'orologio; mancava un'ora e mezzo all'alba.

Rimase per un momento indeciso se svegliare gli uomini. Rinunciò. Si cacciò in bocca una pastiglia di stimolante, aprì il portello sul tettuccio, e si arrampicò fuori. Rimase qualche istante sul tetto dell'autoblindo per stiracchiarsi e respirare a pieni polmoni l'aria fresca della notte. Ovunque c'erano uomini sdraiati, appena visbili nell'oscurità. Un altro suono, uno strano urlo, risuonò nei boschi facendo rabbrividire Alec.

Scavalcando uno degli uomini che dormivano raggiunse la postazione del laser. — Gianelli — chiamò sottovoce.

— Sì.

— Fai un sonnellino. Sto io di guardia.

Gianelli non fece obiezioni. Alec si arrampicò sul suo seggiolino e si fece dare gli occhiali agli infrarossi. Il laser ronzava sommessamente. Invece che come arma funzionava da riflettore, regolato su una sonda ad ampia portata.

Gli occhiali erano davvero pesanti. Alec doveva fare uno sforzo per tenere la testa eretta mentre faceva compiere un giro completo all'affusto. Il debole ronzio dei motori gli dava un certo qual senso di sicurezza contro gli strani rumori della notte.

Le lenti agli infrarossi facevano sembrare gli alberi simili a bianchi fantasmi, mentre gli edifici di cemento del complesso erano di un vivido arancione. Il complesso era istallato in un'ampio spiazzo della valle sottostante, distante parecchi metri dagli alberi più vicini. La zona circostante era buia, arida. Forse ci cresceva un po' di erba, ma niente di più.

Mentre Alec faceva ruotare lentamente il laser, per scandagliare tutta l'area circostante, cominciò a provare la sgradevole sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Dapprima fu solo una vaga sensazione di disagio, ma poco per volta la sensazione si accentuò facendolo rabbrividire.

Forse dovrei svegliare qualcuno, pensò. Ma subito si rimproverò: No, sei solo nervoso! Hai paura perché sei fuori all'aperto, da solo.

Stringendo i denti continuò a fare ruotare lentamente l'affusto del laser, con una sensazione di gelo che continuava ad aumentare. Davanti c'era la strada e giù, nel fondovalle, gli edifici. Girando, gli alberi si avvicinavano, misteriosi, coi loro bianchi rami che si protendevano verso di lui o si levavano al cielo. Continuando a ruotare ecco di nuovo la strada, il tratto che portava all'aeroporto, alle navette, alla salvezza. Poi di nuovo gli alberi, e infine gli edifici.

E se lui fosse là? Avrà i rivelatori agli infrarossi? Se li ha allora noi siamo come un faro, un grosso bersaglio luminoso.

D'improvviso Alec premette a fondo i pedali per fare ruotare in senso inverso l'affusto. I motori elettrici protestarono per un istante, l'affusto sobbalzò, poi cominciò a girare nella direzione opposta.

Là! Fra gli alberi!

Scomparve prima che lui potesse distinguere cos'era. Chiazze di calore, parecchie chiazze, fra gli alberi. Erano svanite dal suo campo visivo proprio nell'attimo in cui il laser le aveva evidenziate.

Animali, disse fra sé Alec. Ancora un'ora prima dell'alba, ma il cielo oltre il complesso di Oak Ridge cominciava a schiarire. Possibile che i nostri orari della levata del sole siano sbagliati? Poi, ricordando il magnifico tramonto che si era protratto a lungo la sera prima, nonché quanto gli avevano insegnato sugli effetti dell'atmosfera terrestre, capì che il cielo impallidiva ben prima che il sole comparisse all'orizzonte.

Coi nervi tesi, continuò a scrutare per un quarto d'ora, continuando a cambiare per non ripetere sempre le stesse posizioni. Non vide niente. Poi cominciò ad esserci abbastanza luce per potere fare a meno del laser e degli occhiali.

Via via che la luce aumentava, gli uomini cominciarono a svegliarsi, e Alec non sapeva se fosse più contento perché adesso non era solo o perché la lunga e minacciosa notte era finalmente terminata.

Si avviarono a piedi verso il complesso con Alec all'avanguardia, Kobol alla retroguardia con tre uomini, e l'autoblindo in mezzo alla formazione sparsa degli uomini.

Il terreno intorno alle costruzioni era arido e cosparso qua e là da radi ciuffi di erba stenta. Intorno al complesso c'era una pavimentazione di cemento e asfalto, qua e là screpolata. In alcuni tratti il terreno era coperto di ghiaia.

Mentre si avvicinavano, Alec cominciò a capire perché Kobol si era offerto di stare alla retroguardia. Era l'unico di tutti loro ad essere già stato lì, l'unico che conoscesse la zona. Alec avrebbe voluto chiedergli se gli edifici avevano subito dei cambiamenti, ma per farlo, avrebbe dovuto chiamarlo, e di conseguenza gli uomini si sarebbero resi conto che aveva bisogno dei suoi consigli.

All'inferno! Alec continuò a camminare verso gli edifici immersi in un silenzio di morte, impugnando il mitra. Il tragitto fu più lungo del previsto. Regnava una tranquillità irreale. Non tirava un alito di vento. Dagli alberi non veniva il cinguettio degli uccelli. Il sole stava spuntando oltre la cresta delle colline, ma faceva già molto più caldo del giorno prima. Che il calore provenisse da quegli edifici? La paura della radioattività lo fece rabbrividire, ma continuò a camminare voltandosi di tanto in tanto per guardare gli altri.

Quando raggiunsero il bordo dei vialetti di cemento che correvano fra gli edifici, diede l'alt. I muri erano coperti da striature scure e chiazze variegate.

— Fermate qui l'autoblindo, dove può coprire tutta l'area. Mettetevi in formazione davanti al mezzo.

Kobol lo raggiunse zoppicando, con la tuta chiazzata di sudore alle ascelle e sul petto. Aveva un aspetto grottesco col pesante elmetto sferico piantato sulla testa.

— Cosa ne pensi? — gli chiese Alec indicando con un ampio gesto gli edifici.

Kobol sollevò le sopracciglia tanto da farle sparire sotto il bordo dell'elmetto. — È passato molto tempo da quando sono venuto qui. Ma mi pare che non siano cambiati.

— Quello è l'ingresso principale, vero?

Kobol annuì.

— Bene. Gianelli, prendi due uomini e seguici. Gli altri restino qui. Tenete gli occhi bene aperti.

I cinque si avviarono lentamente verso l'ingresso, in preda a una crescente tensione. Alec vedeva le finestre, fracassate tanto tempo prima, che lo fissavano come occhi ciechi. Anche le porte erano andate distrutte e le pareti recavano i segni di un antico incendio. L'interno era immerso nell'ombra.

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