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I due grifoni atterrarono nel cortile con un possente sventolio d'ali: l'animale dal manto a strisce e quello grigio di Mogien. Mancava quello bianco, e non lo rividero mai più. Forse era l'animale che Rocannon aveva visto sulla rampa, nella luce dorata e crepuscolare della cupola, cibo per le larve degli Angeli.

I Kiemhrir avevano paura dei grifoni. Il minuscolo inchino di Muso Nero per poco non venne sommerso dal panico, quando Rocannon cercò di salutarlo e di ringraziarlo. — Oh, vola, Signore! — disse penosamente, tenendosi accuratamente lontano dalle unghiute zampe degli animali; così non persero tempo nel partire.

A un'ora di volo dalla città alveare, i sacchi e le selle, i mantelli di ricambio, le pelli che usavano per dormire, giacevano intatti accanto alle ceneri del fuoco della notte precedente. Poco più in là, sul fianco della collinetta, c'erano tre Uomini Alati, morti, e accanto ai cadaveri le due spade di Mogien, una delle quali spezzata nettamente all'altezza dell'elsa.

Mogien, destandosi nella notte, aveva visto gli Uomini Alati, curvi sulle figure di Yahan e di Kyo. Uno di essi lo aveva morso, e: — … Non sono riuscito più a parlare — spiegò. Ma aveva lottato e ne aveva uccisi tre, prima che la paralisi lo abbattesse.

— Ho udito Raho che gridava il mio nome. Mi ha chiamato tre volte, e io non ho potuto aiutarlo. — Sedette tra le rovine coperte d'erba che erano sopravvissute più a lungo dei nomi e delle leggende, si mise sulle ginocchia la spada spezzata e rimase in silenzio.

Alzarono una pira di rami e di fascine, e vi misero a giacere Raho, che avevano portato con sé dalla città alveare. Accanto a lui, posero l'arco e le frecce. Yahan accese il fuoco, e Mogien portò la fiamma alla legna. Montarono in sella, Kyo dietro a Mogien e Yahan dietro a Rocannon, e si alzarono in grandi cerchi intorno al fumo che si levava dalla pira ardente, sotto il sole del primo pomeriggio, sulla cima di una collina di quel paese straniero.

Per lungo tempo, volando, poterono vedere la sottile colonna di fumo alle loro spalle.

I Kiemhrir avevano fatto capire chiaramente che avrebbero dovuto allontanarsi in fretta, tenendosi al coperto durante la notte, perché gli Uomini Alati non li scorgessero dopo il calar del buio. Verso sera giunsero a un fiume che scorreva in una gola profonda, fra gli alberi, e si accamparono nei pressi di una cascata. Il luogo era umido, ma l'aria era fragrante e il piacevole rumore del fiume rilassò il loro spinto. Per cena trovarono un cibo prelibato: un animale acquatico lento e protetto da uno spesso guscio, di sapore assai delicato; ma Rocannon non riuscì a mangiarlo. Sotto le articolazioni e sulla coda c'era ancora un residuo di pelliccia: era un mammifero oviparo, come molti animali di quel pianeta, e come gli stessi Kiemhrir, probabilmente.

— Prendi anche la mia razione, Yahan. Non posso mangiare una bestia che forse, mentre la mastico, si mette a parlarmi — disse, irritato perché aveva fame, e andò a sedere accanto a Kyo.

Kyo sorrise, massaggiandosi la spalla ancora dolorante. — Se di ciascuna creatura si potessero udire le parole… — cominciò.

— Io sarei il primo a morire di fame.

— Comunque, le creature verdi sono silenziose — disse il Fian, toccando la scabra corteccia di un albero caduto attraverso il fiumiciattolo. Laggiù nel sud gli alberi, che erano tutti conifere, erano in fiore e l'aria della foresta era polverosa e dolce per il polline che trasportava. Laggiù tutte le piante affidavano al vento il loro polline, erbe e conifere, perché non c'erano insetti e non c'erano fiori con i petali. La primavera, sul mondo senza nome, era tutta verde: verde scuro e verde chiaro, con grandi quantità di polline dorato sparse nell'aria.

Mogien e Yahan si addormentarono non appena fece buio, stendendosi accanto alla cenere ancora calda; avevano spento il fuoco per non attirare gli Uomini Alati. Come Rocannon aveva intuito, Kyo era più resistente degli uomini per ciò che riguardava il veleno. Rimase a sedere con Rocannon, al buio, sulla riva del fiume.

— Hai salutato i Kiemhrir come se tu li conoscessi già — osservò Rocannon.

Il Fian rispose: — Se uno di noi ricordava una cosa, al villaggio, la ricordavamo tutti, Olhor. Per questo noi conosciamo molte storie, e molte dicerie, e menzogne e verità, e non si può mai sapere quanto siano antiche…

— Eppure non conoscevi gli Uomini Alati.

Sembrava che Kyo preferisse evitare l'argomento, ma infine rispose: — I Fiia non ricordano le cose di cui hanno avuto paura, Olhor. La notte e le caverne, e le spade di metallo, le abbiamo lasciate al Popolo dell'Argilla, quando il nostro cammino si e separato dal loro, e abbiamo dimenticato molto!

La sua voce leggera era più ferma, più ansiosa di prima, quella sera, e giungeva chiara attraverso il rumore dell'acqua che scorreva sotto di loro e di quella che precipitava dalla cascata, sopra di loro.

— Ogni giorno — riprese Kyo, — a mano a mano che procediamo verso sud, io penetro sempre più profondamente nelle favole che i miei compagni imparano da bambini, nelle valli dell'Angien. E vedo che quelle favole sono vere. Ma abbiamo dimenticato metà di quelle favole. I piccoli Divoratori di Nomi, i Kiemhrir, sono presenti nelle vecchie canzoni che ci cantiamo da una mente all'altra, ma non gli Uomini Alati.

«Ci sono gli amici, ma non i nemici. C'è la luce del sole, ma non il buio. E io sono il compagno di Olhor che viaggia verso sud, verso le leggende, senza portare spada. Io viaggio con Olhor, che cerca di ascoltare la voce del suo nemico, Olhor che ha attraversato il grande buio, che ha visto il Mondo sospeso nell'oscurità come una gemma azzurra. Io sono soltanto un mezzo uomo. Io non posso oltrepassare le montagne. Io non posso recarmi nei Luoghi Alti con te, Olhor.

Rocannon posò delicatamente la mano sulla spalla del Fian, e subito la piccola creatura tacque. Rimasero seduti ad ascoltare lo sciacquio del fiume, della cascata nella notte, a guardare la luce grigia delle stelle riflessa sull'acqua che scorreva, tra le macchie e le volute del polline trasportato dal vento, fredda come il ghiaccio, proveniente dalle montagne del sud.

Due volte, durante il volo del giorno successivo, videro lontano, a est, le cupole e le strade a raggiera delle città alveare. Quella notte fecero doppi turni di guardia. La sera del giorno dopo erano penetrati per un buon tratto nella zona delle montagne, e una pioggia gelida e sferzante li accompagnò per tutta la notte e per il giorno seguente, in volo. Quando le nubi gonfie di pioggia si aprirono un poco, videro che tutt'intorno a loro, nella distanza, si alzava una catena di montagne altissime.

Trascorse un'altra notte di pioggia e di turni di guardia: questa volta si accamparono sulla cima di una montagnola, sotto le rovine di un'antica torre, e l'indomani, poco dopo il mezzogiorno, si trovarono dall'altra parte del passo, dove vennero accolti dal sole e da un'ampia valle che si dirigeva a sud, verso una lontanissima catena di monti.

Ora, alla loro destra, mentre percorrevano in volo la valle come se fosse stata una grande autostrada verde, i picchi bianchi si ergevano serrati, lontani e immensi. Il vento era tagliente e dorato, e i destrieri si facevano trasportare come foglie cadenti illuminate dal sole. Sopra la dolce conca verde che si stendeva sotto di loro, e sulla quale parevano disegnate a smalto macchie più scure di alberi e cespugli, aleggiava una striscia sottile di grigio. Il grifone di Mogien scese a grandi cerchi, Kyo indicò a Rocannon un punto, e presto giunsero al villaggio che giaceva tra fiume e collina, illuminato dal sole e con i piccoli camini che fumavano. Un gregge di herilor brucava tranquillamente sul fianco della collina, al di sopra di esso. Al centro del cerchio irregolare di casette, tutte di travi sottili, con schermi scorrevoli e porticati grandi e soleggiati, si alzavano cinque grandi alberi. I viaggiatori presero terra accanto a questi alberi, e i Fiia vennero a salutarli, timidi e sorridenti.

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