Dando uno strattone alle redini dell'animale giallo su cui era montato, e che cercava ancora di ritornare alla scuderia, Mogien si portò al di sopra dell'uomo ed esclamò: — Parla, presto! I miei uomini sono andati ad accendere altre torce!
— Di quale feudo sei, Signore?
— Hallan!
— Il Signore-Esterno di Plenot chiede una tregua per spegnere l'incendio, Signore di Hallan!
— In cambio della vita e dei beni degli uomini di Tolen, te la concedo.
— Così sia — esclamò l'uomo, e, sempre tenendo alta la bacinella piena d'acqua, rientrò nel castello. Gli assalitori si ritirarono sulle dune, e la gente di Plenot corse alle pompe, formando una fila che si passava i secchi d'acqua. La torre bruciò totalmente, ma le pareti e i tetti del castello si salvarono. Gli abitanti del castello erano una ventina o poco più, comprese le donne. Quando i fuochi furono spenti, un gruppo di persone uscì dal portone, attraversò il promontorio roccioso e raggiunse le dune. Davanti a tutti veniva un uomo alto e magro, che aveva la pelle color guscio di noce e i capelli di fiamma degli Angyar; dietro di lui venivano due soldati che ancora portavano il loro curioso elmo a insalatiera, e per ultimo un gruppetto di sei, tra uomini e donne, vestiti di stracci, che si guardavano intorno con aria rassegnata. L'uomo alto teneva ancora nelle mani la ciotola piena d'acqua.
— Sono Ogoren di Plenot — disse, — Signore-Esterno di questo feudo.
— Sono Mogien, erede di Hallan.
— La vita della gente di Tolen è tua, Signore. — Indicò con un cenno del capo il gruppo lacero. — A Tolen non c'erano beni.
— C'erano due navi, Esterno.
— Dal nord viene volando il drago, e tutto vede — borbottò Ogoren, irritato. — Le navi di Tolen sono tue.
— E tu riavrai i destrieri quando le navi saranno ormeggiate a Tolen — disse Mogien, magnanimo.
— Da quale altro signore ho avuto l'onore di essere sconfitto? — domandò Ogoren, adocchiando Rocannon, che indossava l'equipaggiamento e la corazza di bronzo dei guerrieri Angyar, ma che non aveva spada. Anche Mogien fissava l'amico, e Rocannon rispose con il primo appellativo che gli venne in mente: il nome con cui lo chiamava Kyo.
— Sono Olhor — disse, — l'Errante.
Ogoren lo fissò con un'espressione strana, poi rivolse un inchino a tutt'e due e disse: — La ciotola è piena, Signori.
— Che l'acqua non si versi, e che il patto non sia spezzato!
Ogoren voltò loro le spalle e ritornò con i suoi due uomini al forte che ancora fumava. Non degnò di una sola occhiata i prigionieri liberati, che si erano raccolti in un gruppetto. A questi ultimi, Mogien disse soltanto: — Conducete con voi il mio destriero; ha un'ala ferita. — Poi, risalendo sulla bestia gialla del castello di Plenot, si alzò in volo. Rocannon lo seguì, voltandosi indietro a guardare il triste gruppetto che faceva lentamente ritorno a casa, nel castello in rovina.
Quando raggiunsero Tolen, il suo spirito combattivo si era ormai spento; aveva ripreso a darsi dello sciocco. C'era davvero una freccia, piantata nel suo polpaccio sinistro: la vide quando smontò di sella, sulla duna. Non sentì alcun dolore, finché non fece una sciocchezza: la strappò via, senza prima assicurarsi che la punta non fosse uncinata (come era in realtà). Gli Angyar non usavano veleno, ma c'era sempre il rischio di un'infezione. Influenzato dal coraggio dei compagni, si era vergognato di indossare la sua tuta difensiva, quasi invisibile, in occasione dell'incursione. Pur possedendo un'armatura capace di resistere a un laser, aveva rischiato di morire in quel maledetto tugurio per la scalfittura di una freccia dalla punta di bronzo. Era partito per salvare un pianeta, e a malapena era riuscito a salvare la pelle.
Il più vecchio dei quattro servitori venuti da Hallan, un individuo tranquillo e tarchiato chiamato Iot, entrò nella capanna, e quasi senza fare parola, gentilmente, si inginocchiò e lavò la ferita di Rocannon, coprendola con una fasciatura. Poi giunse Mogien, che era ancora vestito da battaglia: sembrava alto tre metri a causa dell'elmetto con la cresta, e largo un metro e mezzo a causa delle grandi spalline rigide, simili ad ali.
Dietro di lui venne Kyo, silenzioso come un bambino in mezzo ai guerrieri di una razza più forte. Poi entrarono Yahan, Raho e il giovane Bien; il pavimento cigolò sotto tutto quel peso, quando si sedettero attorno al focolare.
Yahan riempì sette coppe dall'orlo d'argento, e Mogien, con gravità, le passò agli altri. Tutti bevvero. Rocannon cominciò a sentirsi meglio. Mogien gli domandò della sua ferita, e Rocannon si sentì ancora meglio.
Bevvero altro vaskan, mentre gli abitanti del villaggio, timorosi e ammirati, sbirciavano per un istante attraverso la porta, dalla stradicciola buia. Rocannon si sentiva eroico e magnanimo. Mangiarono, bevvero ancora, e poi, nella capanna soffocante e piena di fumo, fra l'odore del pesce fritto e del sudore, Yahan si alzò in piedi, prese una cetra di bronzo con le corde d'argento, e cominciò a cantare.
Cantò di Durholde di Hallan che aveva liberato i prigionieri di Korhalt, al tempo del Signore Rosso, oltre le paludi di Born; e quando ebbe descritto la stirpe di ciascun guerriero che aveva preso parte alla battaglia, nonché ciascun colpo da lui sferrato, attaccò con la liberazione della gente di Tolen e con l'incendio della Torre di Plenot, con la torcia dell'Errante che ardeva in mezzo a una pioggia di frecce, con il possente colpo inferto da Mogien erede di Hallan, con la lancia scagliata nel vento che raggiungeva il suo bersaglio come l'infallibile lancia di Hendin nei giorni antichi.
Semiubriaco, soddisfatto, Rocannon si lasciò portare dal fiume del canto, ormai convinto di essere totalmente legato, con un patto sancito dal sangue versato quel giorno, al pianeta dove si trovava: un mondo su cui era giunto come uno straniero, dall'abisso della notte. Solo di tanto in tanto, accanto a lui, percepiva la presenza del piccolo Fian, sorridente, estraneo, sereno.
CAPITOLO QUARTO
Sul mare scendeva una pioggia battente, e l'acqua aveva l'aspetto di una distesa di lunghe onde coperte di vapore. Il mondo aveva perso ogni tono di calore.
Due destrieri, con le ali legate e incatenati alla poppa della nave, gemevano e ululavano; dalle onde gonfie del mare, attraverso la pioggia e la nebbia, giungeva, come un'eco dolorosa, lo stesso tipo di suoni, proveniente dall'altra imbarcazione.
Avevano trascorso vari giorni a Tolen, aspettando la guarigione della gamba di Rocannon e aspettando che il grifone nero fosse nuovamente in grado di volare. Sebbene si trattasse di valide ragioni per attendere, la verità era che Mogien provava riluttanza a partire, ad attraversare il mare che pur doveva valicare. Vagava per la sabbia grigia, tra le lagune sotto Tolen, completamente solo, forse per liberarsi della premonizione avuta da sua madre Haldre. A Rocannon poteva solamente dire che la vista e il suono del mare rendevano pesante il suo cuore.
Quando infine il destriero nero fu pienamente guarito, decise improvvisamente di rimandarlo a Hallan, affidato a Bien, come se volesse salvare dal pericolo almeno una cosa preziosa. Avevano anche deciso di lasciare al vecchio Signore di Tolen e ai suoi nipoti le due bestie da soma e la maggior parte del carico, per aiutarli a rimettere in sesto il castello male in arnese. Così, ora, a bordo delle due navi con le teste di drago sogghignanti scolpite sulla prua, c'erano soltanto sei viaggiatori e cinque grifoni, tutti bagnati fino all'osso, e quasi tutti intenti a lamentarsi.
Due pescatori di Tolen, dall'aria ottusa, governavano la nave. Yahan cercava di consolare le due bestie incatenate cantando loro una ballata, lunga e monotona, in elegia di un Signore morto nel lontano passato; Rocannon e il Fian, con un mantello sulle spalle e con il cappuccio sulla testa, erano a prua.