Acciuffò un ragazzetto e lo trascinò alla luce del fuoco che rimbalzava senza posa, costringendolo ad aggiungere legna alla pira.
— Non c'è niente da mangiare? — scherzò. — Portate cibo, voi donne! Hai visto la nostra ospitalità, Olhor, hai visto come si mangia da noi? — Afferrò un trancio di carne dal tagliere che una donna si era affrettata a offrirgli, e si fermò davanti a Rocannon, addentando con ostentazione il pezzo d'arrosto e lasciando che il sugo gli scivolasse sulla barba. Un paio di bravacci si affrettarono a imitarlo, un passo dietro di lui.
La maggior parte dei presenti, però, si teneva alla larga dalla zona dove era legato Rocannon; Zgama li incitò ad avvicinarsi al fuoco quanto bastava per aggiungere un pezzo alla pira dove era fermo l'uomo calmo e taciturno, mentre le fiamme guizzavano sulla pelle arrossata, stranamente luccicante.
Il rumore e il fuoco si spensero, infine. Uomini e donne si addormentarono raggomitolati nei loro stracci di pelli: sul pavimento, negli angoli, sulle ceneri ancora calde. Un paio di uomini vegliava, con la spada sulle ginocchia e un fiasco a portata di mano.
Rocannon chiuse gli occhi. Incrociando due dita, aprì la tuta in corrispondenza della testa e poté di nuovo respirare aria fresca. La lunga notte si trascinò lentamente; tra molti indugi, anche il cielo si rischiarò alla luce dell'alba. Nella luce grigia del giorno, attraverso la nebbia che si insinuava nelle finestre, giunse Zgama, scivolando sulle macchie di unto e inciampando in corpi che russavano. Osservò il prigioniero: il suo sguardo era fermo e severo, quello dell'uomo che lo teneva legato al palo era carico di inutile minaccia. — Brucia, brucia — brontolò Zgama, e uscì.
Dall'esterno del rustico castello giunse a Rocannon il sommesso tubare degli herilor, i grassi e piumosi animali domestici da carne degli Angyar, che avevano le ali tarpate e che laggiù, probabilmente, venivano condotti al pascolo sulle scogliere. La stanza si svuotò: rimasero soltanto alcuni bambini in fasce e alcune donne, che si tennero a buona distanza da lui anche quando giunse l'ora di arrostire la carne per il pasto serale.
Rocannon era legato da una trentina di ore, e soffriva sia per il dolore, sia per la sete. Era appunto quello, il suo punto debole: la sete. Avrebbe potuto rimanere digiuno per vari giorni, e per altrettanto tempo avrebbe potuto rimanere legato, anche se già si sentiva girare la testa. Ma senza acqua non avrebbe potuto resistere per più di un altro di quei lunghi giorni.
Inerme come era, qualsiasi cosa avesse detto a Zgama, minacce o ricatti, si sarebbe limitata, semplicemente, ad accrescere l'ostinazione del barbaro.
Quella notte, mentre il fuoco danzava davanti ai suoi occhi ed egli scorgeva al di là delle fiamme la grossa faccia, bianca e barbuta, di Zgama, continuò a vedere con l'occhio della mente una faccia diversa, con i capelli biondi e la pelle scura: Mogien, che egli era giunto ad amare come amico, e anche un po' come figlio. Mentre la notte e il fuoco continuavano interminabili, pensò al piccolo Kyo, il Fian, dall'aspetto infantile e dall'espressione insondabile, legato a lui in modi ch'egli non tentava neppure di comprendere; rivide Yahan che cantava le gesta degli eroi; Iot e Raho che brontolavano e ridevano insieme mentre si prendevano cura dei grifoni dalle lunghe ali; Haldre che si sfilava dal collo la collana d'oro.
Non gli ritornò alla mente alcun ricordo della sua vita precedente, anche se era vissuto per molti anni, su molti pianeti, aveva imparato molto, fatto molte cose. Tutte le sue precedenti esperienze erano state cancellate, erano state bruciate via. Gli sembrò di essere ritornato a Hallan, nella lunga sala dove erano appesi gli arazzi che mostravano le lotte tra uomini e giganti alati, con Yahan che gli offriva una tazza d'acqua: — Bevi, Signore delle Stelle, bevi.
Ed egli bevve.
CAPITOLO QUINTO
Feni e Feli, le due lune più grandi, danzarono riflesse sulla superficie del liquido, quando Yahan gli portò una seconda tazza d'acqua da bere. Nel focolare ormai ardevano soltanto poche braci. La sala era buia, con l'eccezione di qualche macchia e di qualche raggio di luce lunare, e gli unici rumori che si udivano erano il respiro e i movimenti delle numerose persone che dormivano.
Quando Yahan sciolse cautamente le catene, Rocannon dovette appoggiare tutto il suo peso contro il palo, perché aveva le gambe intorpidite e non era in grado di reggersi in piedi senza sostegno.
— La porta esterna e sorvegliata tutta la notte — Yahan gli bisbigliò all'orecchio, — e le guardie non dormono. Domani, quando porteranno al pascolo le bestie…
— Domani sera. Non sono in grado di correre. Dovrò ricorrere a un bluff. Aggancia le catene tra loro, Yahan, in modo che reggano il mio peso. E metti il gancio qui in basso, accanto alla mia mano. — Uno dei dormienti si rizzò a sedere, sbadigliando; con un sogghigno che balenò per un istante nella luce lunare, Yahan si stese immediatamente a terra e parve svanire fra le ombre.
Rocannon lo vide uscire all'alba, insieme con gli altri, per condurre al pascolo gli herilor: anch'egli indossava una pelle d'animale sporca di fango, e i suoi capelli neri spuntavano fuori come una scopa. Di nuovo Zgama gli si avvicinò e lo guardò torvo. Rocannon era certo che sarebbe stato disposto a dare di buon grado metà delle sue greggi e delle sue mogli per sbarazzarsi di quel prigioniero sovrannaturale, ma era intrappolato dalla sua stessa ferocia: il carceriere è il prigioniero del prigioniero.
Zgama aveva passato la notte dormendo sulle ceneri calde, e aveva i capelli sporchi di cenere grigia, cosicché sembrava lui, l'uomo bruciato, e non Rocannon, la cui pelle nuda splendeva chiara. Uscì a grandi passi, e di nuovo la sala fu vuota per buona parte della giornata, anche se rimase un paio di guardie alla porta. Rocannon passò il tempo facendo esercizi isometrici di ginnastica, senza farsi notare. Quando una donna che passava davanti a lui lo sorprese mentre si stirava, continuò a stirarsi come se niente fosse, ondeggiando ed emettendo una bassa, arcana cantilena. La donna cadde a terra carponi e scappò via, piagnucolando.
Dalle finestre entrò la nebbia del crepuscolo, alcune donne accigliate fecero bollire una pignatta di carne e alghe marine, dall'esterno giunse il tubare di centinaia di animali, e Zgama e i suoi uomini fecero ritorno, con la barba e le pellicce luccicanti di goccioline di condensazione della nebbia. Sedettero sul pavimento per mangiare. La stanza era chiassosa, puzzava ed era satura di vapore. La tensione di ritrovarsi ogni notte davanti a un evento sovrannaturale cominciava a trasparire: le facce erano torve, le voci erano irascibili.
— Portate legna, questa volta lo faremo arrostire! — urlò Zgama, alzandosi per buttare sulla pira un ciocco acceso. Ma nessuno si mosse.
— Ti mangerò il cuore, Olhor, quando lo vedrò friggere tra le tue costole! Mi appenderò al naso la tua pietra azzurra! — Zgama schiumava di rabbia, reso frenetico dallo sguardo fisso e silenzioso che sopportava ormai da due notti. — Ti farò chiudere gli occhi! — urlò, e afferrato un pesante bastone che giaceva sul pavimento, lo calò con forza sulla testa di Rocannon, balzando però indietro nello stesso momento, come se avesse avuto paura del proprio gesto. Il bastone cadde fra i ceppi ardenti e rimase in bilico sopra il resto della legna.
Lentamente, Rocannon abbassò la mano destra, strinse il bastone e lo estrasse dal fuoco. La punta era già in fiamme. La sollevò finché non raggiunse il livello degli occhi di Zgama, e solo allora, con altrettanta lentezza, fece un passo avanti. Le catene che lo tenevano legato si sciolsero e caddero a terra. Il fuoco divampò e si aprì, in una pioggia di braci e di faville, intorno ai suoi piedi nudi.
— Fuori! — disse, dirigendosi verso Zgama, che indietreggiò prima di un passo e poi di un altro. — Tu non sci più il padrone. L'uomo senza legge è schiavo, l'uomo crudele è schiavo, lo stupido è schiavo. Tu sei mio schiavo, e io ti caccio via come una bestia. Fuori! — Zgama si afferrò ai due stipiti della porta, ma il bastone fiammeggiante puntava contro i suoi occhi: dovette uscire nel cortile. Le guardie, accovacciate a terra, non facevano una sola mossa. La nebbia era rischiarata da alcune torce di resina che splendevano presso la porta principale; gli unici rumori erano il mormorio degli animali nella stalla e il sibilo della risacca che giungeva dal basso. Un passo dopo l'altro, Zgama indietreggiò fino a raggiungere la porta con le due torce. La sua faccia bianca e nera aveva la fissità di una maschera, mentre il bastone rovente si avvicinava. Muto per la paura, si afferrò al tronco che faceva da pilastro alla porta, e bloccò il passaggio con il suo corpo massiccio. Rocannon, esausto e vendicativo, premette forte contro il suo petto la punta fiammeggiante, spinse Zgama a terra, e, camminando sul suo corpo, uscì nell'oscurità e nella nebbia, fuori della porta. Fece circa cinquanta passi nel buio: poi inciampò, e non riuscì a rialzarsi.