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Nessuno lo inseguì. Nessuno uscì dal recinto dietro di lui. Rimase sdraiato sull'erba che copriva la duna, in stato di semicoscienza. Molto tempo più tardi le torce della porta si spensero o vennero spente; restò solo il buio. Il vento che soffiava tra l'erba aveva molte voci, e dal basso sibilava il mare.

Quando la nebbia si diradò, lasciando filtrare la luce delle lune, Yahan lo trovò laggiù, vicino all'orlo della scogliera. Con il suo aiuto, Rocannon si alzò in piedi e riprese il cammino. Procedendo a tastoni, inciampando, strisciando sulle mani e sulle ginocchia dove il percorso era accidentato e indistinguibile a causa del buio, si mossero verso sudest, allontanandosi dalla costa. Si fermarono un paio di volte per prendere fiato e per orientarsi, e Rocannon cadde addormentato quasi nello stesso momento in cui si fermarono. Yahan lo svegliò e lo costrinse a camminare, finché, poco prima dell'alba, scesero in una valle riparata da una foresta scoscesa.

Nell'oscurità nebbiosa, il regno degli alberi era nero come la pece. Yahan e Rocannon vi entrarono seguendo il letto di un torrente, ma non andarono lontano.

Rocannon si fermò e disse, nella sua lingua: — Non ce la faccio più. — Yahan trovò una striscia di sabbia sotto l'argine: laggiù si sarebbero potuti nascondere, almeno rispetto a chi guardasse dall'alto; Rocannon vi entrò strisciando, come un animale che ritornasse alla tana, e dormì.

Quando si svegliò, al tramonto, quindici ore più tardi, scorse Yahan, con una piccola raccolta di germogli verdi e di radici commestibili. — È ancora troppo presto, nell'annocaldo, per trovare frutti — spiegò, lamentandosi, — e quegli zotici del Castello degli Zotici mi hanno preso l'arco. Ho messo alcune trappole, ma prima di notte non prenderò nulla.

Rocannon consumò con avidità i vegetali, e dopo essersi dissetato al torrente ed essersi sciolto i muscoli, riuscì nuovamente a ragionare. Chiese: — Yahan, come hai fatto a trovarti laggiù, al… Castello degli Zotici?

Il giovane plebeo abbassò lo sguardo e, con il piede, seppellì accuratamente nella sabbia qualche cima di radice immangiabile. — Ecco, Signore, sai che io ho… disobbedito al mio Signore Mogien. Perciò, in seguito, ho pensato che mi sarei potuto unire ai Senza Padrone.

— Perché, avevi già sentito parlare della loro esistenza?

— Da noi, a casa, si parla di luoghi dove gli Olgyior sono i padroni e i servi. Si dice anche che, nei tempi antichi, nell'Angien ci fossimo soltanto noi plebei: eravamo cacciatori e abitavamo nelle foreste; poi vennero dal sud, sulle navi-drago, gli Angyar…

«Comunque, ho trovato il forte, e gli uomini di Zgama hanno pensato che fossi fuggito da qualche località lungo la costa. Mi hanno tolto l'arco e mi hanno messo al lavoro, e nessuno mi ha fatto domande. È stato così che ti ho trovato. Ma sarei fuggito in qualsiasi caso, anche se non avessi trovato te. Tra zoticoni come quelli, non ci resterei un minuto di più, neanche se mi facessero loro capo!

— E sai dove siano i nostri compagni?

— No. Intendi andare a cercarli, Signore?

— Chiamami per nome, Yahan. Sì, anche se la possibilità di trovarli fosse minima, li cercherei lo stesso. Non possiamo attraversare da soli un continente, a piedi, senza vestiti e senza armi.

Yahan non disse nulla; per qualche tempo continuò a lisciare la sabbia con il piede, a fissare il ruscello che scorreva nell'ombra, cristallino, sotto i pesanti rami di conifera.

— Non sei d'accordo? — fece Rocannon, infine.

— Se il mio Signore Mogien mi troverà, mi ucciderà. È suo diritto.

Secondo il codice Angyar era la verità; e se c'era una persona che non avrebbe mai infranto il codice, quella era Mogien.

— Se tu trovassi un nuovo padrone, quello vecchio non potrebbe più toccarti: è vero, Yahan?

Il ragazzo assentì. — Ma un servo ribelle non trova padroni.

— Dipende. Impegnati a servirmi, e io risponderò di te a Mogien… ammesso che lo troviamo. Non conosco la formula che usate…

— Noi diciamo — cominciò Yahan, parlando a voce molto bassa, — dono al mio Signore le ore delia mia vita e l'uso della mia morte.

— E io le accetto. E con esse anche la vita che tu mi hai ridato.

Il ruscello scorreva rumoreggiando dal fianco della montagna, e il cielo si era oscurato. Qualche tempo più tardi, Rocannon si tolse la tuta e si distese nell'acqua fredda, perché l'acqua, scorrendo lungo tutto il corpo, portasse via il sudore, la stanchezza, la paura e l'immagine delle fiamme che gli sfioravano gli occhi.

Una volta sfilata, la tuta era una manciata di tessuto trasparente e di tubi e di fili quasi invisibili, sottili come capelli, con due cubi traslucidi grossi come un'unghia. Yahan, a disagio, osservò Rocannon che si rimetteva la tuta (non aveva abiti, e Yahan era stato costretto a scambiare con un paio di pelli di herilor, sudice, le sue vesti Angyar).

— Signore Olhor — disse infine, — è stata quella pelle, che non ha permesso al fuoco di bruciarti? O è stato… il gioiello?

Adesso la collana era nascosta nel sacchetto degli amuleti di Yahan, intorno al collo di Rocannon. Rocannon rispose gentilmente: — La pelle. Non ci sono incantesimi. Si tratta solo di una corazza molto robusta.

— E il bastone bianco?

Rocannon abbassò gli occhi sul bastone, lo stesso che aveva raccolto sulla spiaggia, con l'unica differenza che adesso una delle estremità era carbonizzata. Yahan l'aveva trovato la notte prima, tra l'erba della scogliera, e lo aveva portato con sé, esattamente come avevano fatto in precedenza gli uomini di Zgama, i quali l'avevano portato al forte insieme con Rocannon; parevano convinti che dovesse tenerselo: che cos'era un mago senza la sua bacchetta?

— Be' — rispose, — è un buon bastone, se c'è da camminare. — Si distese nuovamente, e per mancanza di un pasto prima del sonno, si dissetò ancora con l'acqua del ruscello scuro, freddo e rumoroso.

Il mattino seguente, quando si svegliò, sul tardi, si era ristabilito ed era affamato. Yahan si era allontanato all'alba, sia per controllare le trappole sia perché aveva troppo freddo per rimaner e ancora a lungo in quell'umida tana. Quando fece ritorno aveva soltanto una manciata di erbe, e recava una cattiva notizia. Era salito fino alla cresta della montagna (si trovavano ancora sul versante rivolto verso il nord) e da lassù aveva visto che a sud si stendeva un altro largo braccio di mare.

— Quei maledetti mangiapesci di Tolen ci hanno lasciato su un'isola? — brontolò. Il suo solito ottimismo era messo a dura prova dal freddo, dalla fame e dal dubbio.

Rocannon cercò di ricordare com'era tracciata la costa nelle sue carte geografiche scomparse in mare. Un fiume che giungeva dall'ovest sfociava a settentrione di una lunga lingua di terra, la quale a sua volta faceva parte di una lunga catena montuosa parallela alla costa, che correva da ovest a est; tra la lingua di terra e la massa principale del continente si stendeva un braccio di mare abbastanza lungo e ampio, chiaramente delineato sulla cartina e nella memoria di Rocannon. Quanto poteva essere lungo? Cento, duecento chilometri?

— Quant'è largo? — domandò a Yahan.

Il giovane gli rispose tristemente: — Molto largo. Io non so nuotare, Signore.

— Possiamo camminare. Questo promontorio si unisce alla terraferma, a ovest. Probabilmente troveremo Mogien lungo la strada: ci starà aspettando. — Spettava a lui dare gli ordini (Yahan aveva già fatto la sua parte), ma aveva un tuffo al cuore quando pensava al lungo tragitto in un territorio sconosciuto e ostile. Yahan non aveva incontrato anima viva, ma aveva scorto sentieri tracciati, e in quei boschi doveva esserci qualche abitante, visto che la selvaggina era così scarsa e timorosa.

Ma per avere qualche possibilità di trovare Mogien (ammesso che Mogien fosse vivo, che fosse libero, e che avesse ancora i destrieri) si sarebbero dovuti dirigere verso sud, perché laggiù si trovava il loro obbiettivo. — Andiamo — disse Rocannon. e si avviarono.

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