I pescatori avevano detto che c'era un insediamento a est dell'insenatura dove erano sbarcati, e quindi si diressero a oriente nella pallida nebbia che li circondava come una cappa soffice di cecità. Con i destrieri avrebbero potuto innalzarsi al di sopra della coltre di nebbia, ma i grandi animali, esausti e imbronciati dopo essere rimasti legati due giorni sulla nave, non erano disposti a volare. Mogien, Iot e Raho li conducevano per la briglia, e Rocannon veniva per ultimo. Rocannon teneva d'occhio, senza farsene accorgere, il cammino già percorso, per vedere se comparisse Yahan, che gli era molto simpatico. Per riscaldarsi indossava la tuta, senza però mettere il cappuccio, che lo avrebbe isolato completamente dal mondo. Ma anche con la tuta, provava un certo disagio a camminare nella fitta nebbia su una spiaggia sconosciuta; mentre camminava, cercava fra la sabbia un qualsiasi tipo di bastone o di mazza. Tra i solchi lasciati dalle ali dei destrieri, festoni di alghe e di salsedine essiccata, vide un bastone lungo e bianco, trascinato fin lì dalle onde. Lo liberò dalla sabbia e subito si sentì meglio, adesso che era armato. Ma, fermandosi, era rimasto indietro: nella nebbia, si affrettò a seguire le orme lasciate dai compagni. Una figura si alzò alla sua destra. Capì subito che non era un suo compagno, e sollevò il bastone in posizione difensiva, ma qualcuno lo afferrò alle spalle e lo rovesciò a terra. Qualcosa che sembrava cuoio bagnato gli tappò la bocca. Riuscì a liberarsi, ma come ricompensa ricevette un colpo sulla testa che gli fece perdere i sensi.
Quando tornò in sé, dolorosamente e un poco alla volta, si accorse che giaceva supino sulla sabbia. Molto al di sopra di lui, due grandi e nebbiose figure discutevano gravemente. Riusciva a capire solo in parte il loro dialetto Olgyior: — Lasciamolo qui — diceva uno, e l'altro diceva qualcosa come: — Uccidiamolo subito, non ha niente.
A queste parole, Rocannon si rotolò sul fianco e riuscì a infilare la testa e la faccia nel cappuccio della tuta, e a chiuderla. Uno dei giganti si chinò per guardarlo, e Rocannon vide che era soltanto un corpulento plebeo infagottato in pelli di animale.
— Portalo da Zgama; forse Zgama lo vuole — disse l'altro. Dopo qualche ulteriore discussione, Rocannon venne sollevato per le braccia e portato via di peso. L'uomo che lo trasportava procedeva trotterellando, di buona lena; Rocannon cercò di liberarsi, ma la testa gli girava, aveva il cervello annebbiato. Si accorse confusamente che la nebbia diventava più scura, gli parve di udire alcune voci, di vedere un muro di bastoni, argilla e canne intrecciate e una torcia che ardeva, infilata in un anello. Poi un tetto sulla testa, altre voci e il buio. Infine, a faccia in giù su un pavimento di pietra riprese i sensi e sollevò la testa.
Presso di lui, in un focolare grande come una capanna, ardeva un fuoco di legna. Gambe nude e pelli stracciate formavano una siepe tra Rocannon e il fuoco. Alzò maggiormente la testa e vide una faccia: un plebeo dalla pelle bianca e dai capelli neri, con un copricapo di pelliccia. — Chi sei? — domandò con voce aspra e profonda, guardando torvamente Rocannon.
— Io… io chiedo l'ospitalità di questa casa — disse Rocannon, quando riuscì a mettersi in ginocchio. Per il momento non poté fare di più.
— Ne hai già assaggiato una prima dose — disse l'uomo barbuto, mentre Rocannon si toccava il gonfiore sull'occipite. — Ne vuoi ancora? — Il mucchio di gambe infangate e di brandelli di pelliccia intorno a lui si mosse: occhi scuri che sbirciavano, facce bianche che sogghignavano.
Rocannon si alzò in piedi. In silenzio, senza muoversi, attese che gli ritornasse l'equilibrio e che diminuisse un poco il dolore che gli martellava nel cervello. Poi sollevò la testa e fissò gli occhi lucidi e neri dell'uomo che lo teneva prigioniero. — Tu sei Zgama — disse.
L'uomo barbuto fece un passo indietro; sembrava spaventato. Rocannon, che su vari mondi si era già trovato in situazioni difficili, sfruttò al massimo questo vantaggio psicologico. — Io sono Olhor, l'Errante — disse. — Vengo dal nord e dal mare, dalla terra che giace al di là del sole. Vengo in pace e me ne vado in pace. Lasciata la casa di Zgama, me ne andrò verso sud. Che nessuno mi fermi!
— Ah — fecero tutte le bocche spalancate, nelle facce bianche, fissandolo. Lui continuò a guardare Zgama senza battere ciglio.
— Qui il padrone sono io — fece l'omone, con voce aspra e ansiosa. — Nessuno se ne va senza il mio permesso.
Rocannon non parlò, e non distolse lo sguardo.
Zgama vide che nella battaglia degli occhi era il perdente: tutta la sua gente continuava a guardare lo straniero, con gli occhi sgranati. — Smettila di fissarmi! — urlò. Rocannon non si mosse. Comprese di trovarsi davanti a un avversario ostinato, ma era troppo tardi per cambiare tattica. — Smettila di fissarmi! — urlò di nuovo Zgama, poi afferrò una spada da sotto il suo mantello di pelli, la sollevò dietro le spalle e, con un colpo tremendo, cercò di staccare dal collo la testa dello straniero.
Ma la testa dello straniero non si staccò. Lo straniero vacillò, ma la spada di Zgama rimbalzò come se avesse colpito una roccia. Tutta la gente raccolta intorno al fuoco bisbigliò: — Ahhh! — Lo straniero si raddrizzò e non si mosse, sempre con lo sguardo piantato su Zgama.
Zgama rimase un po' perplesso; per qualche istante fu tentato di lasciare libero quel suo prigioniero sovrannaturale. Ma l'ostinazione tipica della sua razza l'ebbe vinta sulla perplessità e sul timore.
— Prendetelo… Afferratelo per le braccia! — ruggì, e quando vide che i suoi uomini non si muovevano, prese Rocannon per una spalla e lo fece girare su se stesso. A questo punto si mossero anche gli altri, e Rocannon non fece resistenza. La tuta lo proteggeva dal mondo esterno: da sbalzi di temperatura, da radioattività, da urti e colpi aventi bassa velocità e scarsa forza d'urto, come i colpi di spada e i proiettili di arma da fuoco, ma non poteva sottrarlo alla presa di dieci o quindici uomini robusti.
— Nessuno lascia senza permesso la casa di Zgama, Signore della Baia Lunga! — L'omone diede totalmente sfogo alla sua rabbia, quando vide che i suoi bravacci, più coraggiosi di lui, avevano immobilizzato Rocannon. — Tu sei una spia delle Teste Gialle dell'Angyar, con i trucchi e le magie Angyar, e le navi-drago vi seguono dal nord.
«Ma non qui! Io sono il Signore dei senzapadrone. Che si provino, le Teste Gialle e i loro servitori lecca-stivali, che si provino a venire qui… gli faremo assaggiare qualche palmo di bronzo! Tu esci strisciando dal mare, e vieni a chiedermi un posto accanto al fuoco, vero? Ti riscalderò io, spia! Te lo do io, l'arrosto, spia. Legatelo al palo, svelti!
Quel brutale scoppio d'ira aveva rincuorato i suoi, che si accalcarono per legare lo straniero a uno dei due pali che, sul focolare, reggevano un lungo spiedo, e per ammucchiare legna intorno alle sue gambe.
Poi cadde il silenzio. Zgama si avvicinò, minaccioso e imponente nella sua pelliccia, prese un ramo acceso dal focolare e lo agitò davanti agli occhi di Rocannon, poi diede fuoco alla pira. Le fiamme divamparono. In un attimo i vestiti di Rocannon, il mantello scuro e la tunica di Hallan presero fuoco; le fiamme si levarono intorno alla sua testa, gli coprirono la faccia.
— Ahhh — mormorarono di nuovo i presenti, ma uno di loro disse: — Guardate! — Quando la fiammata si spense, essi videro in mezzo al fumo la figura dello straniero, ritta, impassibile, con le fiamme che gli lambivano le gambe: fissava ancora Zgama negli occhi. Sul petto nudo, appeso a una catena d'oro, splendeva un grande gioiello che sembrava un occhio spalancato.
— Pedan, pedan — gemettero le donne, rifugiandosi negli angoli più scuri.
Zgama interruppe le grida di panico con la sua voce tonante: — Brucerà! Fatelo bruciare! Deho, porta ancora legna, la spia non brucia abbastanza in fretta!