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Poco davanti a lui, vicino alla base argentea e senza commessure del muro, era rannicchiato uno degli animali bruni. Sulle quattro zampe giungeva a malapena al ginocchio di Rocannon. A differenza della maggior parte degli animali non intelligenti del pianeta, non aveva ali. Cercava di nascondersi contro la base del muro, sembrava decisamente spaventato, e Rocannon si limitò a girargli attorno, per non allarmarlo, con il rischio che lo assalisse, e proseguì per la sua strada. Nel tratto che poteva scorgere dal punto in cui si trovava, sull'alto muro curvo, non c'erano porte.

— Signore! — chiamò una vocina da un punto indeterminato. — Signore!

— Kyo! — esclamò Rocannon, voltandosi. La sua voce rimbalzò sulle pareti. Nulla si mosse. Pareti bianche, ombre nere, linee rette, silenzio.

Il piccolo animale bruno veniva verso di lui, saltellando. — Signore — gridò con voce esile, — Signore, vieni, vieni. Oh, vieni, Signore!

Rocannon si fermò stupefatto. La piccola creatura si accovacciò sulle robuste gambe posteriori, ponendosi davanti a lui. Ansimava, e i battiti del cuore gli facevano sobbalzare il petto coperto di pelo. Minuscole mani nere, incrociate sul torace. Occhi scuri, atterriti, che lo guardavano. Ripeté con voce tremula, in Lingua Comune: — Signore…

Rocannon si inginocchiò davanti a lui. Pensò rapidamente a come comportarsi con quella creatura, e infine disse, molto gentilmente: — Non so come chiamarti.

— Oh, vieni — disse la piccola creatura, tremando. — Signori… Signori. Vieni!

— Gli altri signori, i miei amici?

— Amici — disse la creatura bruna. — Amici. Castello. Signori, castello, fuoco, destriero, giorno, notte, fuoco. Oh, vieni!

— Vengo — disse Rocannon.

La creatura si allontanò immediatamente, saltellando, e Rocannon la seguì. Si diresse lungo la strada radiale, poi voltò in una via laterale, a nord, e infine entrò in una delle dodici porte che davano accesso alla cupola. E al di là di quella porta, sul pavimento di piastrelle levigate, Rocannon scorse i suoi quattro compagni, esattamente come li aveva lasciati. Più tardi, quando ebbe tempo di pensare all'intera vicenda, capì che quando era uscito dalla cupola era entrato in un cortile diverso, e per questo motivo non aveva più trovato i compagni.

Nel cortile c'erano altre cinque creature uguali a quella che aveva accompagnato Rocannon, tutte raggruppate in atteggiamento reverenziale intorno a Yahan. Rocannon si inginocchiò, per ridurre la differenza d'altezza tra lui e le creature, e rivolse loro un inchino. — Salve, Piccoli Signori — disse.

— Salve, salve — dissero tutte insieme le sei creaturine pelose. Poi uno, che aveva il pelo del muso più nero delle altre, disse: — Kiemhrir.

— Voi siete i Kiemhrir? — Si inchinarono, imitando il suo inchino. — Io sono Rokanan Olhor. Veniamo dal nord. Dall'Angien, dal Castello di Hallan.

— Castello — disse Muso Nero. La sua vocina tremava per l'emozione. Meditò, si grattò la testa. — Giorni, notti, anni, anni — disse. — Signori andati. Anni, anni, anni… Kiemhrir non andati. — Fissò Rocannon con aria speranzosa.

— I Kiemhrir sono rimasti qui? — domandò questi.

— Rimasti! — esclamò Muso Nero, con voce sorprendentemente alta. — Rimasti! Rimasti! — E gli altri mormorarono deliziati: — Rimasti…

— Giorno — riprese Muso Nero, in tono deciso, indicando il sole già alto. — Signori venuti. Andare?

— Sì, vorremmo andare via. Potete darci aiuto?

— Aiuto — disse il Kiemhrir, gustandosi la parola avidamente, con aria deliziata. — Aiuto andare. Signore, rimanere!

E Rocannon rimase nel cortile: si sedette a terra e osservò i Kiemhrir che si mettevano al lavoro. Muso Nero fischiò, e presto arrivò un'altra decina di Kiemhrir, che avanzarono circospetti. Rocannon si domandava dove potessero nascondersi nella matematica precisione della città alveare; ma era evidente che avevano qualche nascondiglio, e anche qualche loro magazzino, perché ne arrivò uno che reggeva tra le piccole mani nere un oggetto bianco sferico che sembrava un uovo.

Era un guscio d'uovo usato come recipiente: Muso Nero lo prese e tolse il tappo, con molta attenzione. Conteneva un liquido denso e trasparente. Ne sparse una piccola quantità sulle spalle dei prigionieri paralizzati, dove erano stati punti dagli uomini alati; poi, mentre altri Kiemhrir sollevavano delicatamente, con molte attenzioni, la testa dei feriti, versò nella loro bocca un poco del liquido.

Non toccò Raho. I Kiemhrir non parlavano tra loro, comunicavano soltanto mediante fischi e gesti; erano molto tranquilli ed erano cortesi in un modo che commosse Rocannon.

Muso Nero gli si avvicinò e gli disse, in tono rassicurante: — Signore, rimanere.

— Vuoi dirmi che devo aspettare? Certo.

— Signore… — disse il Kiemhrir, indicando il corpo di Raho, e poi tacque.

— È morto — disse Rocannon.

— Morto, morto — ripete il Kiemhrir. Si toccò la base del collo, e Rocannon annuì.

Il cortile dalle pareti argentee era ormai totalmente illuminato dalla luce del mezzogiorno. Yahan, che giaceva vicino a Rocannon, trasse un lungo respiro.

I Kiemhrir sedevano sulle zampe posteriori, disposti in un semicerchio, dietro il loro capo. Rocannon si rivolse a lui per dirgli: — Piccolo Signore, posso sapere il tuo nome?

— Nome — bisbigliò la creatura dal muso nero. Tutte le altre erano immobili. — Liuar — disse infine; l'antica parola usata da Mogien per indicare nobili e plebei insieme, quella che la Guida aveva impiegato per definire la Specie II. — Liuar, Fiia, Gdemiar: nomi. Kiemhrir: non nome.

Rocannon annuì, chiedendosi il significato esatto di quella affermazione. La parola kiemher, plurale kiemhrir, era infatti, ricordò, soltanto un aggettivo, che significava «agile, svelto».

Dietro di lui, Kyo respirò a fondo, si scosse, si rizzò a sedere. Rocannon si avvicinò al Fian. Le piccole creature senza nome, attente e tranquille, osservavano con i loro occhi neri. Yahan si ridestò, e infine Mogien, che doveva avere assorbito una fortissima dose del veleno paralizzante, poiché all'inizio non riusciva neppure a sollevare le mani.

Timidamente, uno dei Kiemhrir mostrò a Rocannon che poteva aiutare Mogien massaggiandogli le braccia e le gambe; Rocannon si mise immediatamente all'opera, e intanto spiegò cosa fosse successo, dove si trovassero.

— L'arazzo — mormorò Mogien.

— Come? — gli domandò gentilmente Rocannon, pensando che il giovane fosse ancora intontito, e che delirasse.

— L'arazzo, al castello… i giganti alati.

Subito Rocannon si ricordò di avere sostato accanto all'arazzo, con Haldre, nella Sala del Castello di Hallan: l'arazzo che rappresentava guerrieri dai capelli biondi intenti a combattere contro i giganti alati.

Kyo, che da qualche istante osservava i Kiemhrir, tese la mano. Muso Nero saltellò fino a lui e pose la sua mano minuscola e nera, priva di pollice, sul palmo lungo e sottile di Kyo.

— Signori delle Parole — disse piano il Fian. — Amici delle Parole, Divoratori di Parole, i Senza Nome, il Popolo Svelto, Coloro che Ricordano a Lungo. Ricordate ancora le parole del Popolo Alto, voi Kiemhrir?

— Ancora — disse Muso Nero.

Aiutato da Rocannon, Mogien si alzò in piedi, ancora rigido e sofferente. Rimase a lungo presso Raho, la cui faccia era impressionante, in piena luce. Poi salutò i Kiemhrir e sedette accanto a Rocannon, assicurandolo che si sentiva di nuovo a posto.

— Se non c'è una porta d'accesso, possiamo scavare degli appigli nel muro e arrampicarci — disse Rocannon.

— Fischia per chiamare i destrieri, Signore — mormorò Yahan.

Il problema se il fischio potesse svegliare le creature della cupola era troppo complesso per sottoporlo ai Kiemhrir. Poiché gli Uomini Alati sembravano totalmente notturni, decisero di correre il rischio. Mogien prese da sotto il mantello un piccolo fischietto legato a una catena, e ne trasse un suono che Rocannon non poté udire, ma che fece sobbalzare i Kiemhrir. Dopo una ventina di minuti, una grande ombra si disegnò sulla cupola, descrisse un cerchio intorno ad essa, si lanciò verso nord, e dopo qualche minuto ritornò con un compagno.

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