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Nel frattempo io venivo nutrita a forza, come un’oca di Strasburgo.

Comunque fu un periodo molto felice. Spesso, più spesso sì che no, uno dei miei veri amici mi invitava a dividere il letto. Non ricordo di aver mai rifiutato. Di solito l’appuntamento veniva definito durante l’abbronzatura del pomeriggio, e la prospettiva aggiungeva un brivido al piacere sensuale di stare sdraiata sotto il sole. E siccome lì tutti erano civili, di una dolcezza enorme, era possibile rispondere: «Mi spiace, me lo ha già chiesto Terence. Magari domani? No? Okay, allora uno di questi giorni» senza scatenare risentimenti. Uno dei difetti del gruppo-S cui appartenevo era che questi accordi venivano negoziati dai maschi in base a un protocollo che non mi è mai stato spiegato ma che non era esente da tensioni.

Il ritmo delle domande stupide accelerò. Cominciavo appena ad addentrarmi nei particolari delle ceramiche Ming quando sul mio terminale apparve un messaggio: qualcuno dello staff voleva conoscere i rapporti tra barbe maschili, gonne femminili, e il prezzo dell’oro. Avevo smesso di meravigliarmi per le domande idiote; attorno a Boss può succedere di tutto. Ma questa mi sembrava superidiota. Perché mai doveva esistere qualche rapporto? Le barbe maschili non mi interessano; pungono e sono spesso sporche. In quanto alle gonne, ne sapevo ancora meno. Non le ho quasi mai portate. I vestiti a gonna possono essere carini, però non sono pratici per viaggiare e mi avrebbero fatta uccidere tre o quattro volte; e quando sei a casa, che c’è di male nello starsene nudi? Almeno fino a dove lo permettono i costumi locali.

Ma avevo imparato a non ignorare le domande solo in base alla loro ovvia idiozia. Mi tuffai in quella richiamando tutti i dati possibili, e arrivai a battere sulla tastiera le associazioni più improbabili. Dopo di che dissi alla macchina di tabulare per categorie i dati che aveva trovato.

Mi venga un colpo se non scoprii dei rapporti!

Con l’accumularsi dei dati, conclusi che l’unico modo per avere una visuale generale era ordinare al computer di preparare e mostrarmi un grafico tridimensionale; e il grafico era così promettente che gli dissi di trasformarlo in un ologramma a colori. Splendido! Non sapevo perché quelle tre variabili combaciassero fra loro, ma combaciavano. Trascorsi il resto della giornata a variare i rapporti, X rispetto a Y rispetto a Z in diverse combinazioni; ingrandendo, restringendo, ruotando, cercando relazioni cicloidi meno grandi e meno ovvie di quelle più appariscenti… E notai una piccola gobba sinusoidale che tornava di continuo con le rotazioni dell’olo; e all’improvviso, senza un motivo comprensibile, decisi di togliere la curva dell’attività delle macchie solari.

Eureka! Preciso e necessario come un vaso Ming! Prima di cena avevo l’equazione, un’unica riga che comprendeva tutti i dati cretini che avevo impiegato cinque giorni a estrarre dal terminale. Battei il numero del capo dello staff e trasmisi l’equazione, più le definizioni delle variabili. Non aggiunsi commenti, discussioni; volevo costringere il burlone senza nome a chiedere le mie opinioni.

Ottenni la stessa risposta di sempre, cioè nessuna.

Giocherellai quasi per un giorno intero, aspettando, dimostrando a me stessa che potevo richiamare una foto di gruppo di qualunque anno e indovinare con buona approssimazione, solo guardando i visi maschili e le gambe femminili, il prezzo dell’oro (cali e rialzi), il periodo della foto in relazione al doppio ciclo delle macchie solari; e (dopo un po’, il che mi sorprese più di tutto il resto) riuscii anche a indovinare se la struttura politica era in fase di consolidamento o disgregazione.

Il mio terminale squillò. Nessun viso. Niente pacche sulle spalle. Solo un messaggio: — Si richiede al più presto un’analisi approfondita sulla possibilità che le epidemie di peste dei secoli sesto, quattordicesimo e diciassettesimo siano risultate da una cospirazione politica.

Wow! Ero finita in un manicomio e adesso ero chiusa a chiave con i suoi ospiti.

Al diavolo. Il problema era così complesso che per permettermi di studiarlo avrebbero dovuto lasciarmi in pace per un bel po’. La cosa mi stava bene. Ormai mi ero assuefatta alle possibilità del terminale di un computer coi fiocchi collegato a una rete di ricerca dati su scala mondiale; mi sentivo come Little Jack Horner.

Cominciai con l’elencare, per libera associazione, tutti gli argomenti possibili: peste, epidemiologia, pulci, topi, Daniel Defoe, Isaac Newton, cospirazioni, Guy Fawkes, massoneria, iniziati, Cabala, Rosacroce, Kennedy, Oswald, John Wilkes Booth, Pearl Harbor, Berretti Verdi, influenza spagnola, contenimento territoriale della peste, eccetera.

Tre giorni dopo, il mio elenco di possibili argomenti correlati alla domanda era dieci volte più lungo.

Nel giro di una settimana sapevo che una vita non sarebbe bastata a studiare in profondità tutto il mio elenco. Però mi avevano detto di mettermi all’opera, così cominciai, dando comunque una mia definizione a «al più presto»: studiavo coscienziosamente per almeno cinquanta ore la settimana, ma come e quando volevo, senza farmi fretta o sentirmi assillata… A meno che non fosse arrivato qualcuno a spiegarmi perché avrei dovuto lavorare più sodo o in maniera diversa.

La cosa continuò per settimane.

Venni svegliata nel cuore della notte dal mio terminale. Chiamata d’emergenza; andando a letto (sola, non ricordo perché) lo avevo spento come al solito. Risposi insonnolita: — Va bene, va bene! Parla, e sarà meglio per te che il discorsetto sia robusto.

Nessuna immagine. La voce di Boss disse: — Friday, quando si verificherà la prossima grande epidemia di Morte Nera?

Risposi: — Fra tre anni. In aprile. Partirà da Bombay e si diffonderà immediatamente nel mondo. Uscirà dal pianeta con la prima nave.

— Grazie. Buonanotte.

Lasciai ricadere la testa sul cuscino e mi rimisi diritta a sognare.

Mi svegliai alle sette in punto come sempre, restai immobile per diversi istanti e pensai, avvertendo un freddo sempre più forte; decisi che Boss mi aveva davvero chiamata nel mezzo della notte e che gli avevo dato quella risposta assurda.

Quindi ingoia il rospo, Friday, e sali i Tredici Scalini. Premetti l’interno uno. — Friday, Boss. Invoco l’infermità mentale temporanea per quello che ti ho detto stanotte.

— Idiozie. Ci vediamo alle dieci e quindici.

Ero tentata di passare le tre ore seguenti nella posizione del loto, a intonare mantra. Ma nutro la profonda convinzione che non ci si debba presentare nemmeno alla Fine del Mondo senza una buona colazione… Una decisione più che giustificata, visto che i piatti speciali per quel mattino erano fichi freschi con panna, stufato di manzo sotto sale con uova in camicia, e tartine all’inglese con marmellata d’arancia Knott’s Berry Farm. Latte fresco. Caffè colombiano di montagna. Tutto questo migliorò talmente la situazione che passai un’ora a cercare un rapporto matematico fra la storia passata della peste e la data che si era affacciata nella mia mente obnubilata dal sonno. Non ne trovai nessuno, però cominciavo a vedere che la curva prendeva forma quando il terminale, che avevo programmato in precedenza, mi avvertì che mancavano tre minuti.

Non mi ero fatta tagliare i capelli e rasare il collo, ma per il resto ero pronta. Mi presentai allo scoccare dell’ora. — Friday a rapporto, signore.

— Siediti. Perché Bombay? Credevo che Calcutta fosse un epicentro più adatto.

— Forse c’entrano le previsioni del tempo a lungo raggio e i monsoni. Le pulci non sopportano il caldo secco. L’ottanta per cento della massa corporea di una pulce è acqua, e se la percentuale scende al di sotto del sessanta, la pulce muore. Quindi i climi caldi e secchi fermeranno o impediranno un’epidemia. Però, Boss, questa faccenda non ha senso. Mi hai svegliata nel cuore della notte e mi hai fatto una domanda stupida e io ti ho dato una risposta stupida senza nemmeno svegliarmi. Probabilmente è uscita da un mio sogno. Ho avuto incubi sulla Morte Nera, e c’è stata davvero una brutta epidemia che è iniziata a Bombay. Milleottocentonovantasei e anni successivi.

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