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Quando andai da lui, il professor Perry si dimostrò preoccupato, poi mi indicò una consolle in un angolo. — Signorina Friday, perché non vi mettete lì?

— Cosa devo fare?

— Eh? Difficile a dirsi. Senz’altro ce lo spiegheranno. Sentite, al momento sono terribilmente occupato e mi manca il personale. Perché non prendete confidenza con le macchine studiando quello che volete?

Le macchine non avevano nulla di speciale, a parte il fatto che codici speciali davano accesso diretto a diverse grandi biblioteche, come quella di Harvard e la biblioteca di Washington dell’Unione Atlantica e quella del Museo Britannico, senza dover passare per operatori umani o reti elettroniche; oltre all’incomparabile risorsa dell’accesso diretto alla biblioteca di Boss, che avevo lì vicino. Se ne avevo voglia, potevo persino leggermi i suoi volumi rilegati sul mio terminale, girando le pagine con la tastiera, senza mai togliere i libri dalla loro atmosfera all’azoto.

Quel mattino stavo percorrendo ad alta velocità l’indice della biblioteca dell’università di Tulane (una delle migliori nella repubblica della Stella Solitaria), in cerca della storia di Vicksburg vecchia, quando inciampai in un rimando ai diversi tipi di spettri delle stelle e restai agganciata. Non ricordo perché ci fosse quel particolare rimando, ma se ne trovano in continuazione per i motivi più improbabili.

Stavo ancora leggendo dell’evoluzione delle stelle quando il professor Perry propose di andare a pranzo.

Ci andammo, ma prima io presi qualche appunto sui rami della matematica che volevo studiare. L’astrofisica è affascinante, ma bisogna saper parlare la sua lingua.

Quel pomeriggio tornai a Vicksburg vecchia e una nota a piè di pagina mi rimandò a Show Boat, un musical imperniato su quell’epoca; dopo di che, passai il resto della giornata a guardare e ascoltare musical di Broadway, tutti dei giorni felici prima che la Federazione nordamericana andasse in pezzi. Perché al giorno d’oggi non sanno più scrivere musica come quella? Chissà come si divertivano a quei tempi! Io di certo mi divertii. Sentii Show Boat, The Student Prince e My Fair Lady uno dopo l’altro, e ne annotai ancora una dozzina da ascoltare più avanti. (È questo andare a scuola?)

Il giorno dopo decisi di attenermi allo studio di argomenti professionali in cui ero debole, perché ero certa che una volta che i miei precettori (chiunque fossero) mi avessero assegnato un piano educativo preciso, non avrei più avuto tempo per le mie scelte personali: l’addestramento iniziale nell’agenzia di Boss mi aveva insegnato che i giorni dovrebbero essere di ventisei ore. Ma a colazione la mia amica Anna mi chiese: — Friday, cosa puoi dirmi dell’influenza di Luigi Undicesimo sulla poesia francese?

Strizzai le palpebre. — C’è un premio in palio? Luigi Undicesimo mi pare il nome di un formaggio. E l’unico verso francese che ricordi è «Mademoiselle d’Armentières». Ammesso che sia un verso.

— Il professor Perry ha detto che bisogna rivolgersi a te.

— Ti ha presa in giro. — Quando tornai in biblioteca, papà Perry alzò la testa dalla sua consolle. Gli dissi: — Buongiorno. Anna mi ha raccontato che le avete detto di chiedere a me degli effetti di Luigi Undicesimo sulla lirica francese.

— Sì, sì, ovvio. Adesso ti spiacerebbe lasciarmi in pace? Ho per le mani un programma piuttosto complesso. — Riabbassò gli occhi e mi escluse dal suo mondo.

Frustrata e irritata, battei sulla tastiera Luigi XI. Due ore più tardi riemersi a prendere fiato. Non avevo imparato niente di poesia; per quanto ne sapevo, il Re Ragno non era mai arrivato nemmeno a rimare ton con c’est bon, e non era mai stato un mecenate. Però avevo imparato un sacco di cose sulla politica nel quindicesimo secolo. Violenta. Al suo confronto, le scaramucce in cui mi ero trovata coinvolta sembravano liti da asilo infantile.

Passai il resto della giornata a informarmi sulla poesia francese dal 1450 in poi. Bella a tratti. Il francese è adatto alla poesia, più dell’inglese; ci vuole un Edgar Allan Poe per trarre dalle dissonanze dell’inglese un insieme armonico. Il tedesco è inadatto alla lirica, al punto che le traduzioni hanno un suono più dolce degli originali tedeschi. Non certo per colpa di Goethe o di Heine; è un difetto di una brutta lingua. Lo spagnolo è così musicale che uno slogan pubblicitario per un detersivo spagnolo è più gradevole del miglior verso libero in inglese; lo spagnolo è talmente bello che molta della sua poesia risulta più gradevole se chi la sente non capisce il significato.

Non scoprii mai che effetti avesse avuto Luigi XI sulla poesia, posto che ne abbia avuto qualcuno.

Una mattina trovai occupata la «mia» consolle. Lanciai uno sguardo interrogativo al bibliotecario capo. Lui parve di nuovo sulle spine. — Sì, sì, oggi è molto affollato. Friday, perché non usi il terminale nella tua stanza? Ha gli stessi comandi addizionali, e se tu avessi bisogno di consultarmi puoi farlo ancora più in fretta che qui. Batti l’interno sette e il tuo codice personale. Ordinerò al computer di darti la precedenza. Soddisfatta?

— Perfetto — accettai. Mi piaceva il caldo cameratismo della biblioteca, ma nella mia stanza potevo mettermi nuda senza temere di irritare papà Perry. — Oggi cosa devo studiare?

— Dèi del cielo. Non c’è qualche argomento che ti interessi e meriti ulteriori approfondimenti? Disturbare il Numero Uno non mi va.

Andai nella mia stanza e tornai alla storia francese da Luigi XI in poi e questo mi portò alle nuove colonie sull’altro lato dell’Atlantico e questo mi portò all’economia e questo mi portò ad Adam Smith, e da lì alle scienze politiche. Conclusi che Aristotele aveva avuto i suoi giorni buoni, mentre Piatone era solo un pallone gonfiato, e così successe che mi chiamarono tre volte dalla sala da pranzo, e l’ultima chiamata diceva che per i ritardatari ci sarebbero state solo razioni fredde, e ci fu anche un messaggio in diretta di Blondie che minacciò di venire a prendermi per i capelli.

Così corsi giù, a piedi nudi, ancora chiudendo le cerniere della tuta. Anna chiese cosa diavolo stessi facendo di tanto urgente da dimenticarmi di mangiare. — Non è da Friday. — Di solito lei e Blondie e io mangiavamo assieme, con o senza compagnia maschile. Gli ospiti del quartier generale erano un club, una confraternita, una famiglia rumorosa, e più di una ventina di loro erano miei «amici di bacio».

— Miglioravo il mio cervello — risposi. — Hai davanti a te la Massima Autorità Mondiale.

— Autorità su cosa? — chiese Blondie.

— Su tutto. Provate a chiedere. Alle cose facili rispondo subito. Alle difficili risponderò domani.

— Dimostramelo — disse Anna. — Quanti angeli possono stare seduti sulla punta di un ago?

— Questa è facile. Misura il sedere degli angeli. Misura la punta dell’ago. Dividi A per B. La risposta numerica viene lasciata come esercizio per lo studente.

— Furbona. Che suono fa il battito di una sola mano?

— Ancora più facile. Accendi un registratore, servendoti del terminale più vicino. Batti con una sola mano. Ascolta il risultato.

— Provaci tu, Blondie. Questa ha mangiato troppo pesce.

— Quanti abitanti ha San José?

— Ah, domanda difficile! Ti farò sapere domani.

Questi giochetti continuarono per oltre un mese, finché non mi baluginò nel cranio che qualcuno (Boss, ovviamente) stava davvero cercando di costringermi a diventare la Massima Autorità Mondiale.

Un tempo è davvero esistito un uomo noto come «Massima Autorità Mondiale». Lo incocciai mentre cercavo la risposta a una delle tante stupide domande che continuavano ad arrivarmi dalle fonti più strane. Così: mettete il terminale su «ricerca». Battete in successione i parametri «Cultura nordamericana», «Lingua inglese», «Metà del ventesimo secolo», «Commediografi», «Massima Autorità Mondiale». La risposta che potete aspettarvi è «Professor Irwin Corey». Scoprirete che i suoi sono aforismi di umorismo eterno.

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