E la Costruzione, una macchia torva e immensa sullo sfondo delle colline più lontane, oltre la valle e oltre il fiume.
Cento anni prima, così dicevano i documenti di allora, la Costruzione non era stata più grande della Casa dei Webster.
Ma da allora era cresciuta… e il nome che le era stato dato era il più adatto, perché la Costruzione non era mai completata, continuava a crescere e non si fermava mai. All’inizio aveva coperto un acro di terreno. E poi un chilometro quadrato. E adesso, infine, almeno dieci chilometri quadrati. E continuava a crescere, a crescere, allargandosi sempre più vasta, torreggiando sempre più alta e oscura e svettante nel cielo.
Una macchia torva sulle colline e un terrore oscuro per le piccole creature superstiziose della foresta che la vedevano. Il suo nome era diventato una parola per atterrire i cuccioli e i lupacchiotti e gli orsetti e tutte le piccole creature del bosco, per farli tacere atterriti e tremanti per qualche oscuro e inesplicabile terrore.
Perché si avvertiva la presenza del male, nella Costruzione… il male connaturato con l’ignoto, un male intuito e attribuito, non visto o sentito o fiutato. Un male che si avvertiva specialmente nel buio della notte, quando le luci erano tutte spente e il vento ululava all’imboccatura della tana e tutti gli altri animali dormivano, e qualcuno, solo, stava sveglio ad ascoltare le pulsazioni aliene che cantavano sorde tra i mondi.
Archie batté le palpebre nel freddo chiarore del sole di autunno, e si grattò furtivamente sul fianco.
Forse, un giorno, si disse, qualcuno troverà un rimedio contro le pulci. Qualcosa da spalmarsi sul pelo, per farle stare alla larga. Oppure qualcuno troverà il modo di farle ragionare, di discutere seriamente le cose con loro, di farsi capire e trovare un accordo soddisfacente per tutti. Magari avrebbero potuto aprire una riserva per le pulci, un posto nel quale le pulci avrebbero potuto stare tranquille e venire nutrite, senza che esse dessero più fastidio agli animali. O qualcosa del genere.
Così come stavano le cose, non si poteva fare molto. Ci si grattava. Si diceva al proprio robot di toglierle una per una, anche se di solito il robot strappava più peli che pulci. Ci si rotolava nella sabbia o nella polvere. Ci si gettava nel fiume o nel laghetto o nello stagno, una veloce nuotata e qualche pulce annegava… bene, se accadeva così, non era fatto con intenzione, non le si annegavano davvero. Ci si buttava nello stagno o nel fiume o nel laghetto per lavarsi, per togliere le pulci, e se qualcuna annegava, bene, doveva incolpare solo la sua sfortuna.
Si diceva al proprio robot di toglierle una per una… ma adesso, lui, il robot non l’aveva più.
Non aveva un robot che gli togliesse le pulci.
Non aveva un robot che lo aiutasse a trovare il cibo.
Ma, ricordò Archie, c’era un cespuglio di biancospino in fondo alla valle, sulla riva umida del fiume, e la brina notturna forse aveva fatto cadere le bacche. Si leccò le labbra, pensando alle bacche cadute, pronte a essere raccolte. E c’era un campo di granoturco, dietro la collina. Se riusciva a muoversi in fretta e calcolava bene il tempo e non faceva rumore, sarebbe riuscito senza difficoltà a procurarsi qualche pannocchia. E se proprio non c’era niente da fare, c’erano sempre molte radici e c’erano le ghiande selvatiche e, se ricordava bene, c’erano quegli arbusti di uva selvatica dall’altra parte della collina.
Bene, Rufus se ne era andato, pensò Archie. Che se ne vada dove vuole. Per quello che mi riguarda, i Cani possono tenersi le loro stazioni di nutrizione, e i guardiani possono continuare a cercare all’infinito.
Avrebbe vissuto la sua vita da solo. Avrebbe mangiato i frutti selvatici e si sarebbe scavato da solo le radici commestibili e avrebbe compiuto delle veloci incursioni nei campi di frumento e di granoturco. I suoi remoti antenati avevano vissuto così, avevano scavato le radici con le loro zampe, avevano colto le bacche dai cespugli, avevano saccheggiato i campi coltivati. E se l’avevano fatto loro, poteva farlo anche lui.
Avrebbe vissuto come avevano vissuto tutti gli altri procioni, prima che i Cani fossero venuti con tutte le loro idee sulla Fratellanza degli Animali. Avrebbe vissuto come avevano vissuto tutti gli animali prima di poter parlare usando delle parole, prima di poter leggere i libri stampati che i cani distribuivano, prima di avere dei robot che li servivano sostituendosi alle mani, prima che le tane avessero luce e calore.
Sì, e prima che ci fosse stata una lotteria che ti diceva se dovevi restare sulla Terra o andare in un altro mondo.
I cani, ricordava Archie, erano stati molto persuasivi a questo riguardo, molto ragionevoli e dolci e melliflui. Alcuni animali, avevano detto, dovevano andare negli altri mondi, altrimenti ci sarebbero stati troppi animali sulla Terra. La Terra non era abbastanza grande, avevano detto, per contenerci tutti. E una lotteria, avevano spiegato, era la maniera più equa per decidere quali animali sarebbero andati negli altri mondi e quali sarebbero rimasti.
E, dopotutto, avevano continuato, gli altri mondi erano quasi uguali alla Terra, perché si trattava soltanto di estensioni della Terra. Perché gli altri mondi erano soltanto mondi che seguivano la pista della Terra. Non proprio uguali alla Terra, forse, ma quasi. Solo qualche piccola differenza qua e là. Magari non c’era un albero, dove sulla Terra c’era un albero. Magari c’era una quercia dove sulla Terra c’era un albero di noce. Magari una sorgente di acqua limpida e fresca sgorgava cristallina e musicale dove sulla Terra non c’era nessuna sorgente.
Forse, gli aveva detto Homer, entusiasmandosi con le sue stesse parole… forse il mondo che gli era stato assegnato sarebbe stato ancor meglio della Terra.
Archie si rannicchiò ancora di più, sul fianco della collina, sentì il tiepido sole d’autunno giungere fino a lui, per l’aria vibrante dei brividi di vento dell’inverno vicino. Pensò alle bacche del biancospino. Dovevano essere morbide e saporite e la brina doveva averle fatte cadere, molte sarebbero state al suolo, vicino al fiume. Lui si sarebbe avvicinato, camminando silenzioso sulla terra soffice e muschiosa, e avrebbe mangiato le bacche che si trovavano al suolo, e poi si sarebbe arrampicato sul cespuglio e ne avrebbe colte ancora, e poi sarebbe ridisceso e avrebbe mangiato anche le bacche cadute quando lui aveva scalato il cespuglio, facendolo tremare.
Le avrebbe mangiate e le avrebbe prese tra le zampe e se le sarebbe spiaccicate sul muso. Ci si sarebbe perfino rotolato in mezzo.
Con la coda dell’occhio vide le cose frettolose che correvano nell’erba, come formiche, pensò, solo che non erano formiche. Almeno, non erano simili alle formiche che lui aveva visto in passato.
Pulci, forse. Una nuova razza di pulci.
Mosse rapidamente la zampa e raccolse una delle creature. La sentì correre nel cavo della zampa. Aprì la zampa e vide la creatura correre disperatamente tutt’intorno, e allora richiuse subito la zampa.
Poi si portò la zampa all’orecchio e ascoltò.
La creatura che lui aveva preso stava ticchettando!
Il campo dei robot selvaggi non era affatto come Homer se l’era immaginato. Non c’erano edifici. C’erano solo rampe di lancio e tre astronavi e mezza dozzina di robot che lavoravano intorno a una delle astronavi.
Eppure, a pensarci bene, si disse Homer, lui avrebbe dovuto saperlo, che in un campo di robot non avrebbe trovato degli edifici. Perché i robot non avevano bisogno di un riparo, e cos’era un edificio, se non un riparo?
Homer era spaventato a morte, ma cercava con tutta la sua forza di volontà di non mostrarlo. Arrotolò la coda sopra le reni, tenne la testa bene eretta, e trotterellando avanzò verso il piccolo gruppo di robot, senza la minima esitazione. Quando li raggiunse, sedette al suolo, con la lingua penzoloni, e aspettò che uno dei robot gli parlasse.