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Sarebbe bello, pensò Jenkins, Avere i lupi come amici. Diventerebbero dei magnifici esploratori. Meglio ancora dei cani. Più forti, più veloci, più circospetti. Potrebbero sorvegliare i robot selvaggi al di là del fiume e dare il cambio ai cani. Potrebbero tenere d’occhio anche i castelli dei mutanti.

Jenkins scosse il capo. Non ci si poteva più fidare di nessuno, coi tempi che correvano. I robot parevano onesti. Erano amichevoli, passavano spesso a trovarli, davano una mano in certe occasioni, quando ce n’era bisogno. Bisognava dire che erano degli ottimi vicini, molto socievoli e spesso premurosi. Ma non si poteva mai sapere. E poi, i robot costruivano delle macchine.

I mutanti non davano mai fastidio a nessuno, e anzi era difficile vederli. Ma anche loro dovevano essere sorvegliati. Non si poteva mai sapere a quale diavoleria si stessero dedicando. Bisognava sempre ricordare quello che avevano fatto agli uomini. Quello sporco trucco del juwainismo… che avevano donato all’Uomo nel momento in cui esso avrebbe condannato la razza. Com’era puntualmente accaduto.

Gli uomini. Per noi erano degli dei, e adesso se ne sono andati. Ci hanno lasciati soli. Ce ne sono alcuni a Ginevra, certo, ma non possiamo disturbarli, non si interessano a noi.

Sedette immobile nella penombra del crepuscolo che scendeva come nebbia dalle colline, immerso nei suoi pensieri, pensando ai bicchieri di whisky che aveva portato, alle missioni che aveva eseguito, ai giorni nei quali dei Webster avevano vissuto ed erano morti tra quelle mura.

E adesso… adesso, padre confessore dei cani. Piccoli diavoli gentili e allegri e intelligenti… che lavoravano con tanto impegno, che tentavano di riuscire con tanto impegno in un compito che era così grande.

Un campanello ronzò sommessamente e Jenkins sobbalzò sulla sua poltrona. Il ronzio continuò, prolungato e insistente, e una luce verde ammiccò sul visifono. Jenkins balzò in piedi, e per qualche istante rimase ritto, immobile, incredulo, a fissare la luce ammiccante.

Qualcuno stava chiamando!

Qualcuno stava chiamando dopo quasi mille anni!

Corse barcollando verso il visifono, quasi cadde sulla poltrona, cercò, con dita ansiose, il disco che stabiliva il contatto, lo girò, stabilì la comunicazione.

La parete davanti a lui sì dissolse e lui si trovò seduto davanti a una scrivania, dietro la quale c’era un uomo. Dietro l’uomo le fiamme danzanti di un caminetto rischiaravano una sala dalle finestre alte e strette, dai vetri colorati.

«Tu sei Jenkins,» disse l’uomo, e qualcosa nel suo viso strappò un grido a Jenkins.

«Lei… lei…»

«Io sono Jon Webster,» disse l’uomo.

Jenkins premette le mani sul piano del visifono, rimase diritto e rigido, impaurito dalle emozioni che sgorgavano nel suo corpo metallico, spaventato da sensazioni che non erano le sensazioni di un robot.

«L’avrei riconosciuta comunque e dovunque,» disse Jenkins. «Lei ha il loro aspetto. Sarei capace di riconoscere uno di voi dovunque lo vedessi. Ed è abbastanza naturale. Ho lavorato abbastanza a lungo per voi. Portavo dei liquori e… e…»

«Sì, lo so,» disse Webster. «Il tuo nome è stato tramandato con quello della nostra famiglia. Ti abbiamo sempre ricordato.»

«Lei è a Ginevra, Jon?» E poi, subito, Jenkins ricordò. «Volevo dire signore.»

«Non c’è bisogno di questo,» disse Webster. «Preferirei che mi chiamassi Jon. Sì, sono a Ginevra. Però mi piacerebbe di venirti a trovare. Potrei farlo?»

«Lei intende dire… di venire qui?»

Webster annuì.

«Ma la casa è piena di cani, signore.»

Webster sorrise.

«I cani parlanti?» chiese.

«Sì,» disse Jenkins. «E saranno felici di vederla. Sanno tutto della famiglia. La sera si riuniscono per narrare le storie dei tempi antichi, prima di addormentarsi, e poi… e poi…»

«E poi, Jenkins?»

«Anch’io sarei così felice di vederla. Siamo stati tanto soli, qui!»

Dio era venuto.

Ebenezer rabbrividì a quel pensiero, accucciato nel buio. Se Jenkins sapesse che sono qui, pensò, mi scuoierebbe vivo, questo è sicuro. Jenkins ha detto che dovevamo lasciarlo tranquillo, almeno per un poco.

Ebenezer avanzò silenziosamente sulle sue zampe felpate, col ventre a terra, quasi strisciando. Avanzò ancora, e fiutò la porta dello studio. E la porta era aperta… c’era una fessura sottilissima, ma era aperta!

Si acquattò sul ventre, ascoltò, e non c’era niente da ascoltare. C’era solo un odore, un odore insolito, particolare, che gli faceva rizzare i peli sul dorso, in una serie di ondate d’estasi veloce e quasi insostenibile.

Diede una rapida occhiata dietro di lui, ma non vide nessun movimento. Jenkins era nella sala da pranzo, stava dicendo ai cani come dovevano comportarsi, e Ombra se ne era andato chissà dove, intento a qualche faccenda robotica.

Pianissimo, con infinita cautela, Ebenezer spinse la porta col muso, e la porta cominciò lentamente ad aprirsi. Un’altra spinta, e la porta si aprì per metà.

L’uomo sedeva di fronte al caminetto, nella poltrona, con le lunghe gambe accavallate e le mani giunte sullo stomaco.

Ebenezer si rannicchiò ancor più contro il pavimento, cercò di farsi ancora più piccolo, mentre un involontario guaito gli sfuggiva dalla gola.

Udendo il rumore, Jon Webster si rizzò di scatto.

«Chi c’è?» chiese.

Ebenezer s’appiattì al suolo, gelato dalla paura e da un altro sentimento al quale non riusciva a dare un nome, e sentì il battito del suo cuore, così precipitoso che tutto il corpicino del cane ne pareva pulsare.

«Chi c’è?» ripeté Webster, e poi vide il cane.

Quando parlò di nuovo, la sua voce si era fatta più dolce.

«Vieni, amico. Vieni pure.»

Ebenezer non si mosse.

Webster fece schioccare le dita.

«Non ti farò del male. Vieni. Dove sono tutti gli altri?»

Ebenezer cercò di alzarsi, cercò di muoversi, cercò almeno di strisciare sul pavimento, ma le ossa gli erano diventate di gomma e il sangue gli era diventato acqua. E l’uomo stava avanzando a lunghi passi verso di lui, stava avanzando a lunghi passi sul pavimento.

Vide l’uomo chinarsi su di lui, sentì della mani forti sotto il suo corpo, capì che lo stavano sollevando. E l’odore che aveva fiutato davanti alla porta aperta… l’odore divino al quale lui non poteva resistere… era forte e penetrante nelle sue narici.

Le mani lo tennero stretto contro lo strano tessuto che l’uomo portava al posto del pelo, e una voce lo coccolò… non diceva delle parole, ma era una voce di conforto, era una voce che lo riscaldava e rallentava i battiti del suo cuore impetuoso.

«Così tu sei venuto a vedermi,» disse Jon Webster. «Sei scappato via, e sei venuto a vedermi.»

Ebenezer mosse il muso in un debole cenno d’assenso.

«Non sei arrabbiato, vero? Non lo dirai a Jenkins?»

Webster scosse il capo.

«No, non lo dirò a Jenkins.»

Tornò a sedersi in poltrona ed Ebenezer gli si accucciò in grembo, guardando il suo viso… un viso forte e solcato da molte rughe, rughe approfondite dalla danza guizzante delle luci e delle ombre che le fiamme del caminetto mandavano a rincorrersi per tutta la stanza.

La mano di Webster si mosse e accarezzò la testa di Ebenezer, ed Ebenezer guaì di pura felicità canina.

«È come ritornare a casa,» disse Webster, e non stava parlando al cane. «Come se tu fossi partito per un lungo viaggio, un giorno, e fossi rimasto lontano per tanto, tanto tempo, e poi, finalmente, fossi ritornato a casa. Ma il tempo passato lontano da casa è stato lungo, senza fine, e tu non riconosci più il posto. Non riconosci i mobili, non riconosci il pavimento, non riconosci il soffitto e le pareti e tutte le cose che vedi nella casa. Ma c’è qualcosa nell’aria, c’è qualcosa nei muri e nelle cose, c’è una sensazione, un’atmosfera che tu riconosci, un’atmosfera che ti dice che quel luogo è tuo, è un vecchio posto familiare al quale sei ritornato, e allora sei felice di essere tornato, sei felice di trovarti là.»

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