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Posò le mani sul bordo della scrivania e si protese avanti, abbassando la voce, fino a un mormorio che risuonò rauco nel silenzio della sera.

«Lei capisce di che si tratta, vero, Webster? Lei capisce, almeno un poco.»

Le mani di Webster stavano tremando e lui le posò sulle ginocchia, le strinse forte, finché i pugni non gli fecero male.

«Sì,» mormorò, raucamente. «Sì, credo di capire.»

Perché lui capiva.

Capiva molto di più di quanto le parole non gli avessero detto. Capiva il dolore e la supplica e la delusione amara che guidavano quelle parole. Le capiva come se fosse stato lui a pronunciarle… come se lui fosse stato Fowler.

Fowler esclamò, in tono allarmato:

«Che le succede, Webster? Non si sente bene?»

Webster cercò di parlare e le parole erano polvere. La sua gola si strinse finché non fu un solo nodo di dolore sopra il suo pomo d’Adamo.

Cercò di nuovo di parlare, e le parole uscirono lente e forzate.

«Mi dica, Fowler. Lei ha appreso molte cose, lassù. Cose che gli uomini non conoscono, o conoscono in maniera imperfetta. Come una forma di telepatia quale non possiamo neppure sognare, forse… oppure… oppure…»

«Sì,» disse Fowler. «Molte, moltissime cose. Ma non le ho portate con me, quando sono tornato. Quando sono ridiventato un uomo, sono stato soltanto un uomo. Un semplice uomo, niente di più. Nulla di quanto ho ottenuto su Giove è tornato con me, nel mio vecchio corpo. Si tratta, per la maggior parte, di ricordi nebulosi e confusi, e… be’, e di nostalgia, di desiderio struggente di tornare.»

«Lei vuole dire che non possiede nessuna delle doti che aveva ottenuto, diventando un Rimbalzante?»

«Nemmeno una.»

«Lei non potrebbe, per caso, riuscire a farmi comprendere una cosa che lei desiderasse farmi sapere? Farmi sentire i suoi sentimenti, diciamo.»

«Impossibile,» rispose Fowler.

Webster allungò una mano, prese il caleidoscopio tra le dita, con infinita prudenza, e lo spinse. Il cilindro rotolò per qualche centimetro sui piano levigato della scrivania, e poi si fermò di nuovo.

«Perché è tornato da me?» chiese Webster.

«Per chiederle scusa,» disse Fowler. «Per farle sapere che non ero realmente in collera. Per farle capire che anch’io avevo una mia opinione, una mia posizione da sostenere. Si tratta soltanto di una divergenza di opinioni, ma non c’è nulla di personale, non c’è dell’astio da parte mia. Pensavo che, forse, avremmo potuto stringerci la mano e dimenticare il diverbio.»

«Capisco. E lei è sempre deciso a rivolgersi al popolo?»

Fowler annuì.

«Devo farlo, Webster. Lei se ne renderà conto senz’altro. È… è… bene, per me è quasi una religione. È una fede, una cosa nella quale io credo. Devo dire agli altri che esiste un mondo migliore, che esiste una vita migliore. Devo guidarli in questo mondo, devo condurli a questa vita.»

«Un messia,» disse Webster.

Fowler si irrigidì.

«È la cosa che temevo. Con l’ironia lei non…»

«Io non stavo facendo dell’ironia,» gli disse Webster, quasi con dolcezza.

Raccolse il caleidoscopio, pulì l’estremità con il palmo della mano, meditando. Non ancora, pensò, non ancora. Devo riflettere. Devo pensarci sopra. Non è ancora il momento. Io voglio che mi comprenda, come io comprendo lui?

«Mi ascolti, Fowler,» disse. «Aspetti per un giorno o due. Mi dia un poco di tempo. Solo un giorno o due. Poi ci rivedremo, e potremo riparlarne.»

«Ho già aspettato anche troppo.»

«Ma voglio che lei rifletta bene su questo: un milione di anni fa l’uomo apparve sulla Terra… e allora era soltanto un animale. Da quel tempo, si è inerpicato lentamente e faticosamente sulla scala della civiltà. Con infinita pazienza, con fatica inenarrabile, è riuscito a creare un sistema di vita, una filosofia, un modo di fare delle cose molto più grandi di lui. Il suo progresso è stato geometrico. Oggi l’uomo fa molto di più di quanto non facesse ieri. Domani farà ancora di più di quanto non abbia fatto oggi. Per la prima volta nella storia umana, l’Uomo sta davvero cominciando a camminare sulla via del progresso. Ha appena fatto una buona partenza, diciamo il primo passo. Adesso potrà procedere molto più rapidamente di quanto non abbia fatto fino a oggi.

«Forse non è piacevole come quello che ci aspetta su Giove, forse non è la stessa cosa, e non lo sarà mai. Forse lo stato di esseri umani è misero e squallido, in confronto alla bellezza della vita su Giove e delle creature che vivono lassù. Ma è la nostra vita. Noi siamo esseri umani, ed è la condizione di uomini quella che conta. Si tratta delle cose per le quali abbiamo combattuto, degli ideali per i quali abbiamo lottato. Si tratta di ciò che l’Uomo ha raggiunto. Si tratta del destino che l’Uomo si è modellato.

«È terribile pensare, Fowler, che proprio quando stiamo per prendere la strada giusta dobbiamo scartare il nostro destino, come una cosa vecchia e detestabile, per un nuovo destino del quale non sappiamo niente, perché è impossibile esserne sicuri.»

«Aspetterò un giorno o due,» disse Fowler. «Come mi ha chiesto. Ma l’avverto, Webster. Non riuscirà a fermarmi. Non riuscirà a farmi cambiare idea.»

«Le chiedo solo di aspettare questi due giorni,» disse Webster. Si alzò e tese la mano al suo ospite. «D’accordo, allora?»

Eppure, mentre stringeva la mano a Fowler, Webster capì che non sarebbe servito a niente. Ci fosse stata o non ci fosse stata la filosofia di Juwain, l’umanità stava per giungere a una prova fatale. Una prova fatale che sarebbe stata ancora peggiore, proprio a causa della filosofia di Juwain. Perché i mutanti non perdevano. Se il loro scopo era quello di sbarazzarsi della razza umana, di giocarle l’ultima, tragica beffa, non avrebbero trascurato niente, non avrebbero commesso passi falsi. Ancora un giorno, e ogni uomo, donna e bambino della Terra avrebbe, in un modo o nell’altro, guardato nel mondo colorato di un caleidoscopio. O in qualcosa di equivalente al caleidoscopio. Dio solo sapeva quanti altri metodi di diffondere la «cosa» potevano esistere, e quanti erano stati già usati dai mutanti.

Aspettò che Fowler si fosse chiuso la porta alle spalle, poi si alzò, camminò fino alla finestra, e guardò fuori. Nel cielo della città stava lampeggiando una nuova insegna pubblicitaria… un’insegna che non aveva mai visto prima. Una folle insegna che tracciava folli disegni colorati nella notte. Disegni cangianti, mutevoli, come i disegni di un caleidoscopio che girasse.

Webster guardò i disegni colorati dell’insegna nel cielo, e strinse le labbra, e sentì freddo, un gran freddo dentro di lui.

Avrebbe dovuto aspettarselo.

Pensò a Joe, e dentro di lui nacque un impeto di collera omicida. Perché quella chiamata era stata l’estremo scherno, l’estrema irrisione del grand’uomo superiore allo stupido cucciolo che era lui, Webster. I mutanti avevano voluto ridere fino in fondo, Avevano voluto avvertire gli uomini di quello che stava per accadere, avevano voluto essere certi, certissimi che gli uomini avessero capito chi c’era dietro a tutto quanto, e il destino che li aspettava.

Avremmo dovuto sterminarli finché eravamo in tempo, pensò Webster, e si sorprese per la cristallina freddezza dei suoi pensieri. Avremmo dovuto ucciderli tutti, spazzarli via, come si fa con una malattia pericolosa.

Ma l’uomo aveva rinnegato la violenza come politica del singolo e della società intera. Da centoventicinque anni nessuno più ricorreva all’uso della forza, da centoventicinque anni nessuna fazione si era scontrata con un’altra fazione usando la violenza; non c’erano più state guerre di religione, di razza, di semplice fanatismo.

Quando Joe mi ha chiamato, la filosofia di Juwain si trovava sulla mia scrivania. Avrei dovuto soltanto allungare la mano per toccarla, pensò Webster.

Si irrigidì a quel pensiero. Lui avrebbe dovuto semplicemente allungare la mano per toccarla. E lo aveva fatto!

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