Per la prima volta, Fowler vide la roccia, che distava apparentemente diversi chilometri; era una roccia che possedeva una strana bellezza cristallina, uno splendore che scintillava nell’ombra delle nuvole dai molti colori cangianti.
Fowler esitò.
«È lontana, molto lontana…»
«Ah, andiamo, muoviti,» disse Towser e, nello stesso tempo, si mise a balzare verso la rooccia.
Fowler lo seguì, mettendo alla prova le sue gambe, saggiando la forza di quel suo nuovo corpo, dapprima un po’ dubbioso, sorpreso un attimo dopo, e poi felice, felice di una gioia pura e completa che confondeva e univa in una sola cosa la forza del suo corpo che correva e la prateria rossa e purpurea e cangiante, i vapori e il fumo umido e danzante della pioggia sopra la landa senza limiti.
E, mentre correva, gli giunse il sentore della musica, una musica che pulsava nel suo corpo, che sgorgava da tutto il suo essere, che lo portava leggero su ali veloci d’argento. Una musica che ricordava quella di una campana, una campana di una chiesa sulla cima di una collina, bagnata dai raggi caldi e gentili di un sole di primavera.
E mano a mano che la roccia si avvicinava, la musica si faceva più profonda e melodiosa, e riempiva l’universo intero con le sue bianche ondate di magica armonia. E allora si accorse che la musica veniva dalla cascata altissima che si tuffava lungo il fianco alto della roccia splendente.
C’era un particolare, però, e lui se ne accorse con un brivido di eccitazione; non si trattava d’una cascata d’acqua, ma di una cascata d’ammoniaca, e la roccia era bianca e splendente perché si trattava di ossigeno solidificato.
Si fermò scivolando sulla prateria lucida e cangiante, accanto a Towser, là dove la cascata si frangeva in uno scintillante arcobaleno di cento e cento colori. Cento e cento colori, e mai espressione era stata usata più alla lettera, perché là, sul grande pianeta, non esistevano le sfumature da un colore primario all’altro, come potevano vedere sulla Terra gli occhi degli uomini, ma c’era una selezione nettissima, che scindeva il prisma in tutti i suoi componenti, fino alla sua estrema classificazione.
«La musica,» disse Towser.
«Sì, che cos’è?»
«La musica,» disse Towser, «È fatta di vibrazioni. Vibrazioni dell’acqua che cade.»
«Ma, Towser, tu non sai niente delle vibrazioni.»
«Sì, invece,» ribatté il cane. «Mi è venuto in mente proprio adesso.»
Fowler fu pervaso da un brivido di stupore.
«Ti è venuto in mente, così, semplicemente?»
E d’un tratto, all’interno della sua mente, apparve una formula… la formula di un processo chimico che avrebbe trasformato i metalli in modo da far loro sopportare la tremenda pressione di Giove.
Attonito, incredulo, fissò la cascata meravigliosa e subitaneamente il suo cervello prese i diversi colori e li allineò nell’esatta sequenza dello spettro. Così, semplicemente. Così, come per magia, traendo gli accordi di colori dal cielo, come gli accordi di musica della cascata erano sembrati scaturire dall’aria. E quello che era apparso nella sua mente doveva essere davvero apparso dal nulla, perché lui non sapeva niente né di metalli, né di colori.
«Towser,» esclamò, «Towser, ci sta accadendo qualcosa!»
«Sì, lo so,» disse Towser.
«Sono i nostri cervelli,» disse Fowler. «Li stiamo usando per intero, fino all’angolo più riposto e dimenticato. Li stiamo usando per scoprire cose che avremmo dovuto sempre sapere. Forse i cervelli delle creature della Terra sono per natura lenti e nebulosi. Forse noi siamo gli idioti dell’universo, siamo i più stupidi, i più tardivi. Forse siamo fatti in modo da usare sempre la maniera più difficile per ottenere qualcosa, per costruire qualcosa, per capire qualcosa.»
E, nella nuova limpida chiarezza mentale che pareva essersi impadronita di lui, capì che i suoi pensieri non si sarebbero limitati a classificare i colori dello spettro in una cascata, o a inventare dei metalli capaci di resistere alla pressione di Giove. Avvertiva confusamente la presenza di altre cose, di cose ancora non troppo chiare. Un vago mormorio insinuante, che pareva alludere a cose più grandi, a misteri posti molto al di là della portata del pensiero umano, perfino al di là della portata dell’immaginazione umana. Misteri, fatti, una logica nuova, tutto costruito con il ragionamento. Cose che qualsiasi cervello avrebbe dovuto conoscere, solo che avesse usato completamente tutte le sue capacità di ragionamento.
«Siamo ancora in gran parte terrestri,» disse. «Stiamo appena cominciando ad apprendere i primi barlumi delle cose che dovremmo conoscere… i primi barlumi delle cose che ci erano nascoste, quando eravamo semplici esseri umani, forse proprio perché eravamo dei semplici esseri umani. Perché i nostri corpi umani erano dei corpi ben miseri. Attrezzati poco e male per pensare, attrezzati poco e male in certi sensi che bisogna possedere per sapere e capire davvero. Forse certi sensi necessari per raggiungere una vera conoscenza ci mancavano del tutto, e noi non lo sapevamo, non potevamo sospettarlo.»
Si voltò a guardare la cupola, una piccola cosa nera che la distanza rimpiccioliva e rendeva misera e patetica.
Laggiù c’erano degli uomini incapaci di vedere quel mondo di pura bellezza che era Giove. Uomini che credevano il pianeta oscurato da nubi grevi di tempesta e flagellato da un diluvio di pioggia battente e mortale. Laggiù c’erano degli occhi umani, occhi ciechi, perché non potevano vedere. Poveri occhi di poveri uomini. Occhi che non potevano vedere la bellezza nelle nuvole, che non potevano squarciare il velo delle tempeste e riconoscerne il vero e splendido volto. Corpi che non potevano sentire il brivido e il piacere della musica sublime che sgorgava come acqua di fonte dalla cascata bianca sulla roccia di cristallo nella pianura cangiante d’oro e di porpora.
Uomini che marciavano soli, terribilmente soli, spaventosamente soli, e parlavano con la lingua e con le labbra, come giovani esploratori che si scambiano messaggi agitando delle bandierine colorate, incapaci di protendersi a toccare un’altra mente, come lui, invece, poteva protendersi a toccare la mente di Towser. Uomini che erano esclusi per sempre da quel contatto intimo e personale con le altre cose viventi. Uomini che erano prigionieri, che erano rinchiusi entro mura costruite dalla Natura per loro, e che non lo sapevano, e che non capivano, e non potevano capire.
Lui, Fowler, si era aspettato d’incontrare il terrore, il terrore ispirato da cose mostruose e aliene in agguato là, sulla nuda superficie di Giove; si era aspettato di soccombere di fronte alla minaccia di cose e creature sconosciute, si era aspettato di essere costretto a fuggire, e aveva dovuto compiere un grande sforzo di volontà per affrontare e vincere l’orrore e il disgusto di una situazione che si discostava infinitamente da quelle della Terra.
Ma invece di tutto ciò, invece del terrore e dell’orrore e del disgusto e delle cose aliene, lui aveva trovato la cosa più grande tra tutte le grandi cose che l’Uomo aveva incontrato dall’inizio della sua storia. Aveva trovato un corpo più veloce e più sicuro. Aveva conosciuto un’inattesa sensazione di esultanza, una gioia di vivere più profonda e più vera. Aveva ottenuto una mente più limpida e più acuta. Aveva conosciuto un mondo fatto di bellezza, un mondo che neppure i più audaci sognatori della Terra avevano saputo immaginare.
«Andiamo,» lo incalzò Towser, ansioso.
«Dove vuoi andare?»
«Dovunque,» disse Towser. «Cominciamo ad andare, e poi vedremo dove finiremo. Ho una sensazione… ebbene, una sensazione…»
«Sì, lo so,» fece Fowler.
Perché anche lui aveva quella sensazione. La sensazione di un alto destino, di uno splendido destino. Un certo senso di grandezza. Il presentimento, e anche la certezza, che in qualche luogo, oltre gli orizzonti del grande pianeta, avrebbero trovato l’avventura e cose più grandi ancora dell’avventura.