Poco dopo l’aereo filava verso est, e la grande isola dell’Aurorae Sinus sparì oltre l’orlo del pianeta. Il deserto aperto si stendeva ora sotto di loro per migliaia e migliaia di chilometri, punteggiato da scarse oasi.
Il pilota passò sul comando automatico, e si spostò nella parte centrale della carlinga a parlale con i suoi passeggeri.
«Saremo a Charontis tra quattro ore circa» annunciò. «Temo che non troverete gran che d’interessante da vedere lungo il percorso, anche se ci saranno alcuni begli effetti di colore quando saremo verso l’Eufrate. Ma fino alla Sirte Maggiore è tutto più o meno un deserto uniforme come quello che vedete adesso.»
Gibson eseguì un rapido calcolo mentale.
«Vediamo un po’… voliamo in direzione est e ci siamo messi in viaggio piuttosto tardi… sarà buio, quando arriveremo!»
«Non preoccupatevi. Quando saremo a duecento chilometri ci collegheremo col radiofaro di Charontis. Marte è talmente piccolo che è difficile compiere un viaggio di lunga durata tutto di giorno.»
«Da quanto tempo siete su Marte?» gli chiese Gibson, che aveva finalmente smesso di fare fotografie attraverso i finestrini.
«Da cinque anni.»
«E volate continuamente?»
«Più o meno.»
«Non preferireste viaggiare sulle navi spaziali?»
«Francamente no. Non c’è nessuna emozione a volare con quelle. In realtà non è nemmeno un volare ma un galleggiare nel vuoto per mesi e mesi.» E si volse ridendo a Hilton il quale gli sorrise bonariamente ma senza dimostrarsi propenso a intavolare una discussione sull’argomento.
«Che cosa intendete esattamente per emozione?» insistette Gibson.
«Ecco, prima di tutto si vede un po’ di paesaggio, non si resta lontani da casa troppo tempo, e c’è sempre la speranza di scoprire qualcosa di nuovo. Sono già stato una mezza dozzina di volte ai poli, quasi sempre in estate, l’inverno scorso però ho trasvolato il Mare Boreum. Fuori c’erano centocinquanta gradi sotto zero! Per quanto ne sappiamo, è la temperatura minima finora raggiunta su Marte.»
«In quanto a questo credo di avervi battuto» intervenne Hilton. «Su Titano, la notte, la temperatura scende anche a meno duecento.»
Era la prima volta che Gibson lo sentiva lare un accenno alla sua spedizione su Saturno.
«A proposito, Fred» disse «è vero quello che si dice?»
«E che cosa si dice?»
«Che ti prepari a compiere un altro viaggio su Saturno.»
Hilton si strinse nelle spalle.
«Non c’è ancora niente di deciso. Le difficoltà sono tante, ma credo che lo si farà. Sarebbe vero peccato lasciarsi sfuggire l’occasione. Vedi, se riusciamo a partire l’anno prossimo, possiamo passare vicino a Giove riuscendo così per la prima volta a dargli una buona occhiata. Mac sta studiando per noi un’orbita che passa molto vicina a Giove, esattamente all’interno di tutti i satelliti. Lasceremo che il suo campo gravitazionale ci l’accia girare in modo da poter puntare poi nella direzione giusta per Saturno. Si dovranno lare calcoli su calcoli per ottenere l’orbita che desideriamo, ma si può lare.»
«Ma allora, che cosa aspettate?»
«I quattrini, come al solito! È un viaggio che durerà due anni e mezzo e costerà circa cinquanta milioni di sterline. Marte naturalmente non si può permettere questo lusso. Significherebbe raddoppiare il suo deficit. Ora stiamo tentando di convincere la Terra a finanziarci.»
«Vedrete che alla fine ci riuscirete» disse Gibson. «Ma quando saremo tornati, dammi tutti i dati che ci penso io a scriverli un esposto pepato contro quei rognosi politicanti terricoli. Ricordati che non bisogna mai sottovalutare la potenza della stampa.»
La conversazione si spostò da un pianeta all’altro finché Gibson si ricordò di colpo che stava perdendo una magnifica occasione per ammirare Marte. Dopo aver ottenuto dal pilota il permesso di occupare il suo sedile, dietro la promessa solenne di non toccare niente, passò a prua e si sedette comodamente dietro i controlli.
A mille metri sotto di loro il deserto colorato fuggiva via in direzione ovest. Volavano a una quota che sulla Terra sarebbe stata molto bassa, ma la scarsa densità dell’atmosfera marziana imponeva di mantenersi il più possibile vicino alla superficie, naturalmente entro i margini concessi dai limiti di sicurezza.
Di tanto in tanto il pilota si spostava a prua per controllare la rotta. Una pura formalità, infatti lui non aveva proprio niente da fare sino al momento in cui il viaggio fosse stato prossimo al termine. A una certa ora decisero di bere un caffè, e Gibson raggiunse i compagni nella cabina.
Il Sole intanto era sceso molto basso a occidente, e persino le modeste alture marziane riuscivano a gettare lunghe ombre sul deserto. Al suolo la temperatura era già calata sotto lo zero, e continuava ad abbassarsi rapidamente. Le poche piante coriacee sopravvissute in quella desolazione dovevano aver già congiunto strettamente le loro foglie per conservare quel poco di calore e di energia che avevano immagazzinato durante il giorno, per difendersi dai rigori della notte.
Gibson sbadigliò e si stirò. Quel paesaggio che si snodava velocemente sotto i suoi occhi aveva su di lui un effetto ipnotico contro cui lo scrittore tentava inutilmente di lottare. Decise pertanto di schiacciare un sonnellino durante i novanta minuti o poco più di volo che ancora restavano.
Probabilmente era stato svegliato da un cambiamento nella luce morente. Per un attimo non riuscì a capire quello che vedeva. Rimase immobile a guardare a bocca spalancata, letteralmente paralizzato dallo stupore. Davanti a sé non aveva più il paesaggio piatto, uniforme di poco prima. Deserto e orizzonte erano svaniti e al loro posto torreggiava una catena di montagne vermiglie che si allungavano a perdita d’occhio da nord a sud. Gli ultimi raggi del sole morente ne sfioravano le cime mentre il resto scompariva nella notte che stava avanzando verso occidente.
Per alcuni secondi lo splendore dello spettacolo tolse alla situazione ogni senso di realtà e perciò di minaccia. Infine Gibson si scosse dall’inebetimento in cui era caduto, e con panico improvviso si rese conto che stavano volando a quota troppo bassa per evitare quelle cime da Himalaya!
Al panico improvviso seguì una stretta assai più angosciosa di terrore cosciente, perché si era ricordato di un particolare che nel primo sgomento aveva completamente scordato, e che pure era un l’atto, una realtà arcinota: su Marte non c’erano montagne!
Quando gli portarono la notizia, Hadfield stava dettando un appunto ingente per l’ufficio sviluppi interplanetari. Porto Schiaparelli aveva dato l’allarme quindici minuti dopo il tempo previsto per l’arrivo dell’apparecchio, e il Controllo di Porto Lowell aveva aspettato altri dieci prima di lanciale il segnale di ritardo. Un prezioso velivolo della minuscola squadra marziana si teneva già pronto a decollare non appena fosse spuntata l’alba. L’alta velocità e la bassa quota, essenziali al volo, rendevano tutte le ricognizioni estremamente difficili, ma non appena fosse sorto Phobos i telescopi di lassù avrebbero potuto funzionare collaborando alle ricerche con maggiori probabilità di successo.
La notizia arrivò alla Terra un’ora dopo in un momento in cui radio e stampa erano a corto di notizie. Dopo l’annuncio la gente si affrettò a leggere gli ultimi articoli di Gibson con interesse morboso. Ruth Goldstein non ne seppe niente fino al momento in cui andò da lei, sventolando un giornale della sera, un redattore col quale doveva discutere un paio di questioni tecniche. Ruth vendette immediatamente i diritti di ristampa dell’ultima serie di articoli di Gibson per il doppio di quanto il compratore avrebbe voluto pagarli, poi si ritirò nel suo ufficio privato e pianse disperatamente per oltre un minuto. Questi due fatti sarebbero piaciuti immensamente a Gibson.