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«Credo che non siate ancora abituato a usare questa roba» disse il pilota mostrandogli due respiratori. «Ma dovrete tenerli solo per un minuto solo, il tempo di arrivare alle pulci.» Alle che cosa?, pensò Gibson. Ah, già, quei trabiccoli dovevano essere le famose pulci del deserto marziane, cioè i comuni mezzi di trasporto del pianeta. «Ve lo sistemo io. Arriva l’ossigeno? Bene, andiamo. Può darsi che all’inizio vi sentiate un po’ a disagio.»

L’aria uscì lentamente, sibilando, dalla cabina finché la pressione esterna e interna non fu eguale. L’esposizione improvvisa della pelle all’aria diede a Gibson un senso sgradevole di prurito; infatti l’atmosfera che lo circondava era più rarefatta di quanto lo sia l’aria terrestre sulla cima dell’Everest. Gli erano stati necessari due mesi di lenta acclimatazione sull’Ares, e tutte le risorse della scienza medica moderna per consentirgli di mettere piede sulla superficie di Marte con l’unica protezione di una maschera ad ossigeno.

Si sentì lusingato nel vedere quanta gente si fosse mossa per dargli il benvenuto. Certo non succedeva tutti i giorni che su Marte arrivasse un ospite di tanto riguardo, ma lui sapeva che l’indaffaratissima colonia non aveva tempo da sprecare in molte cerimonie.

Il dottor Scott usci a sua volta dal razzo, sempre reggendo tra le mani la cassetta di metallo che aveva custodito con tanta cura durante il viaggio. Non appena lo vide, un gruppo di coloni gli si precipitò incontro ignorando totalmente Gibson. Le loro voci, alterate dall’aria rarefatta, erano quasi incomprensibili.

«Salve, dottore, felici di rivedervi. Permettete! Lasciate che ve la portiamo noi!»

«Tutto è pronto. All’ospedale ci sono attualmente dieci casi. Tra una settimana si dovrebbe sapere se è efficace o no!»

«Su, andiamo, salite sull’autocarro. Parleremo in seguito!»

Prima che Gibson riuscisse a capire quello che stava succedendo, Scott era scomparso, armi e bagagli. Un motore potente lanciò un gemito acuto e l’autocarro si allontanò a tutta velocità in direzione di Porto Lowell, lasciando Gibson solo e con la sensazione di aver fatto la parte del perfetto imbecille come non mai.

Si era dimenticato completamente del siero. Per Marte l’arrivo del siero era infinite volte più importante della visita di un romanziere e giornalista terrestre, per quanto famoso. Aveva ricevuto una lezione che non avrebbe dimenticato facilmente.

Per sua buona sorte però non era stato lasciato solo. Da una delle due pulci del deserto smontò un uomo che gli andò incontro cordialmente.

«Il signor Gibson? Io sono Westerman del Tempo, del Tempo Marziano, naturalmente. Lietissimo di conoscervi. Questo è…»

«Henderson. Ho la sovrintendenza dei servizi aeroportuali» lo interruppe un uomo alto, dalla faccia che sembrava tagliata con l’accetta, e con l’espressione chiaramente seccata per essere arrivato soltanto secondo. «Ho dato ordine perché provvedano a ritirare il vostro bagaglio. Salite pure.»

Era chiaro che Westerman avrebbe preferito portare lui Gibson, ma dovette fare buon viso e accettare le disposizioni dell’altro. Gibson salì dunque sulla pulce di Henderson attraverso la sacca di materiale plastico flessibile che costituiva il semplicissimo ma efficace compartimento stagno del veicolo, subito raggiunto nella cabina di guida dal suo ospite. Provò un vivo sollievo nel togliersi la maschera: quei pochi minuti trascorsi all’aperto lo avevano spossato. Si sentiva pesante e intontito, esattamente l’opposto di quello che si sarebbe aspettato di provare su Marte. Ma per lunghi mesi non aveva più conosciuto alcuna sensazione di gravità, e gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per riabituarsi a possedere sia pure un terzo del suo peso terrestre.

Il veicolo prese a correre lungo la pista d’atterraggio, verso le cupole del Porto lontane circa due chilometri. Per la prima volta Gibson notò tutt’attorno a sé il luminoso verde marezzato delle piante tigliose, coriacee, che rappresentavano la più diffusa forma di vita marziana. Sulla sua testa il cielo non era più nero ma splendeva di un azzurro radioso, intenso. Il sole era vicino allo zenit, e i suoi raggi, sorprendentemente caldi, penetravano nella cabina attraverso la cupola in plastica.

Gibson scrutò la volta celeste, sperando di individuare la minuscola luna sulla quale i suoi compagni erano tuttora al lavoro. Henderson notò la direzione del suo sguardo e togliendo per un attimo la sua mano dal volante puntò l’indice in direzione del Sole.

«Eccola» disse.

Gibson si fece schermo con le mani. A un tratto vide, sospesa alla volta celeste come una lontana lampada ad arco, una stella brillantissima, lievemente scostata in direzione ovest rispetto al sole. Era troppo piccola anche per essere Deimos, ma quasi subito si rese conto che il suo compagno si era ingannato sull’oggetto delle sue ricerche.

Quella luce ferma, immobile, che brillava inaspettatamente nel cielo diurno, era adesso, e tale sarebbe rimasta per molte settimane, la stella mattutina di Marte. Ma era meglio nota col nome di Terra.

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«Mi scuso di avervi fatto aspettare» disse il maggiore Whittaker, «spero che mi perdonerete. Il Presidente è in seduta da oltre un’ora e sono appena riuscito ad avvertirlo del vostro arrivo. Da questa parte. Prenderemo la strada più breve attraverso gli Archivi.»

Avrebbe potuto essere un ufficio qualsiasi di Londra. Sulla porta era scritto soltanto Presidente. Non c’era il nome: non era necessario. Tutti gli abitanti del sistema solare sapevano benissimo chi governava Marte, poiché in realtà era difficile pensare al pianeta senza che venisse subito in mente il nome di chi ne reggeva le sorti, cioè Warren Hadfield.

Quando lo vide alzarsi dalla scrivania, Gibson notò con sorpresa che il Capo Supremo marziano era molto più piccolo di quanto non si fosse immaginato. L’aveva sempre giudicato dalle sue opere attribuendogli, così, almeno cinque centimetri in più di altezza. La figura sottile e vibrante, però, e la faccia mobilissima, espressiva, lievemente grifagna, erano esattamente come se le era raffigurate.

Il colloquio ebbe inizio con molta prudenza da parte di Gibson, poiché per lui molto dipendeva dalla prima impressione che avrebbe dato. Tutto gli sarebbe stato infinitamente più facile se avesse avuto il Presidente dalla sua. Se invece si fosse fatto un nemico, di Hadfield, avrebbe anche potuto tornarsene subito a casa.

«Spero che Whittaker si sia preso cura di voi» disse il Presidente dopo il primo scambio di cortesie. «Mi scuserete se non vi ho potuto vedere prima, ma sono tornato solo in questo momento da un’ispezione. Come vi sentite qui?»

«Benissimo» rispose Gibson sorridendo. «Credo di aver rotto una mezza dozzina di oggetti per la pessima abitudine presa a bordo dell’Ares di lasciarli sospesi a mezz’aria, ma piano piano mi sto riabituando a vivere in un mondo dotato di gravità.»

«E che cosa pensate della nostra piccola città?»

«Mi sembra che rappresenti uno sforzo straordinario. Non so come abbiate fatto a realizzare tanto in così poco tempo.»

Hadfield lo stava osservando attentamente.

«Siate del tutto schietto: è più piccola di quello che immaginavate, non è vero?»

Gibson esitò un attimo prima di rispondere.

«Ecco, per essere completamente sincero, sì… ma dovete pensare che io sono abituato a metropoli come Londra e New York! Dopotutto, anche sulla Terra duemila persone formerebbero soltanto un piccolo paese. Inoltre la maggior parte di Porto Lowell si trova sottoterra, e anche questo contribuisce a non averne immediatamente la dimensione esatta.»

Il presidente non mostrò né sorpresa né dispetto.

«Tutti provano una delusione quando arrivano qui» disse. «Però tra una settimana la nostra città tascabile crescerà di parecchio grazie alla nuova cupola che stiamo costruendo. Ma ditemi, quali sono i vostri progetti, adesso che siete qua? Probabilmente sapete che io non ero favorevole alla vostra venuta.»

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