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«È questa la funzione dei girasoli ipertrofici di Oxford Circus, immagino.»

«Quelli veramente erano destinati più a uno scopo ornamentale, e temo che stiano diventando un po’ troppo ingombranti. Bisognerà che mi decida a farli togliere, altrimenti seguiteranno a spargere semi dappertutto! Ma adesso muoviamoci di qua e andiamo a dare un’occhiata alla fattoria.»

La definizione di fattoria che stava a indicare il grande impianto alimentare che occupava tutta la Cupola Tre in realtà era assai impropria. Nell’edificio l’atmosfera era umidissima e la luce solare era stata rafforzata da parchi di lampade fluorescenti in modo che la crescita potesse continuare notte e giorno ininterrottamente. Gibson se n’intendeva pochissimo di culture idroponiche, cosicché le cifre che il maggiore Whittaker gli andava orgogliosamente sciorinando gli fecero poco effetto. Riuscì tuttavia a capire che il problema più urgente era quello della produzione di carne, e ammirò l’ingegnosità con cui si era parzialmente ovviato a questo bisogno mediante la coltura di tessuti su vasta scala in grandi tinozze di fluido nutriente.

«Sempre meglio che niente» osservò con malinconia il maggiore. «Che cosa non darei per una costoletta di agnello genuina! Il guaio di una produzione naturale è che prenderebbe troppo spazio, e questo è un lusso che non ci possiamo permettere assolutamente. Tuttavia, non appena sarà terminata la nuova cupola, avvieremo una fattoria modesta con qualche pecora e un paio di mucche. Chissà come si divertiranno i bambini. Non hanno mai visto un animale vivo, capite?»

Il che però non era del tutto esatto, come Gibson avrebbe scoperto in seguito, perché il maggiore si era momentaneamente dimenticato di due tra i più notevoli residenti di Porto Lowell.

Alla fine della visita d’ispezione Gibson si sentì la testa parecchio stanca. I meccanismi della vita cittadina erano troppo complicati, a Porto Lowell, e il maggiore si era preoccupato di mostrargli assolutamente tutto. Perciò lo scrittore fu contento quando il giro della città ebbe finalmente termine e poterono rientrare a casa del maggiore per la cena.

«Credo che per oggi ne abbiate avuto abbastanza» disse Whittaker, «ho voluto farvi vedere il più possibile perché domani saremo tutti occupatissimi e quindi non potrò dedicarvi molto tempo. Il Capo è assente, come forse saprete, e sarà di ritorno soltanto giovedì, quindi dovrò occuparmi io di tutto.»

«Dove è andato?» domandò Gibson, più per cortesia che per curiosità vera e propria.

«Oh, su Phobos» rispose il maggiore dopo una brevissima esitazione. «Non appena tornerà, sarà lieto di vedervi.»

La conversazione era stata poi interrotta dall’arrivo della signora Whittaker e dei figli, e per tutto il resto della serata Gibson fu costretto a parlare esclusivamente della Terra. Era la sua prima, e non sarebbe stata certamente l’ultima, esperienza dell’interesse insaziabile dimostrato dai coloni per il pianeta d’origine. Un interesse che di rado ammettevano apertamente, fingendo anzi un’ostentata indifferenza per il vecchio mondo e le sue vicende. Ma le domande e soprattutto le pronte reazioni alle critiche e ai commenti terrestri tradivano il loro reale atteggiamento.

Era strano parlare a bambini che non avevano mai conosciuto la Terra, che erano nati e avevano trascorso la loro breve esistenza sempre ed esclusivamente al riparo delle grandi cupole. Gibson si chiedeva che significato avesse per loro la Terra. Era forse più reale, per loro, dei regni immaginari delle favole? Tutto quello che avevano appreso del mondo dal quale i loro genitori erano emigrati, era di seconda mano, derivato da libri o da fotografie e immagini. Per quello che riguardava i loro sensi, la Terra era soltanto un pianeta sconosciuto e lontanissimo, oggetto forse di qualche pensiero ma non di desiderio.

Eppure quei bambini, malgrado l’ambiente completamente artificiale da cui erano circondati, avevano un aspetto sano e felice, e sembravano serenamente inconsapevoli delle molte cose che a loro mancavano e che non avevano mai avuto. Gibson si chiese quali sarebbero state le loro reazioni se un giorno fossero andati sulla Terra. Sarebbe stato un esperimento estremamente interessante, ma per il momento nessun bambino nato su Marte era ancora abbastanza adulto per poter essere separato dai genitori.

Quando Gibson lasciò la casa del maggiore, al termine della giornata marziana, le luci della città si stavano spegnendo. Parlò pochissimo mentre Whittaker lo riaccompagnava all’albergo: aveva l’animo troppo gonfio di impressioni confuse e contrastanti. L’indomani mattina avrebbe cercato di esaminarle e catalogarle.

Per il momento la sua sensazione era che la maggiore città marziana fosse soltanto un grosso villaggio-giocattolo supermeccanizzato.

Al di là del riparo della cupola, oltre le alture vermiglie, oltre il limite della pianura di smeraldo… il resto di quel mondo era ancora un mistero inviolato e ignoto.

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«Mi fa davvero piacere rivedervi finalmente tutti quanti» disse Gibson, trasportando cautamente le bibite dal piano del bar. «E adesso chissà che cosa combinerete qui a Porto Lowell. Immagino che la prima mossa sarà quella di rimettervi in contatto con le ragazze del posto.»

«Il che non è mai un’impresa facile» disse Norden.

«Di solito, da un viaggio all’altro le ritroviamo sposate, quindi bisogna andarci con molto tatto. A proposito, George, che ne è della signorina Mackinnon?»

«Vuoi alludere alla signora Henry Lewis, comandante» lo corresse George, «madre di un bambino molto bello.»

«Pazienza!» sospirò Norden. «Speriamo che mi abbiano lasciato una fetta di torta nuziale. Alla tua salute, Martin.»

«E a quella dell’Ares» soggiunse Gibson facendo tintinnare il bicchiere contro quello dell’amico. «Mi auguro che l’abbiate rimessa insieme a dovere. Quando vi ho lasciati era alquanto malridotta.»

Norden rise.

«Le rimetteremo a posto la corazza solo dopo che avremo rifatto il carico. Ma non c’è pericolo che si rovini per eccesso di pioggia.»

«Che ne pensi di Marte, Jimmy?» chiese Gibson. «Tu sei il solo nuovo qui, oltre a me.»

«Non ho ancora visto quasi niente» rispose Jimmy con prudenza. «Però tutto, qua dentro, mi sembra di dimensioni ridotte.»

«Ricordo che quando eravamo su Deimos dicevi giusto il contrario, ma probabilmente te ne sei dimenticato. Quella volta eri leggermente sbronzo.»

«Non sono mai stato sbronzo in vita mia!» protestò Jimmy sdegnato.

«Allora ti faccio i miei complimenti perché in quell’occasione hai fatto una perfetta imitazione dell’ubriaco; e io ci sono cascato in pieno. Ma m’interessa quello che dici perché io ho avuto la tua stessa impressione subito dopo i primi due giorni, cioè dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere dentro le cupole. C’è un solo rimedio: uscire e sgranchirsi le gambe. Per il momento ho girellato solo un po’ a piedi qua attorno, ma adesso sono finalmente riuscito a mettere le mani su una pulce del deserto della società trasporti. Domani voglio andare a fare una bella corsa fra le colline. Vuoi venire anche tu?»

Gli occhi del ragazzo brillarono di gioia.

«Oh, grazie! Ne sarei felicissimo!»

«E noi?» disse Norden.

«Voi ci siete già stati» disse Gibson. «Ma siccome c’è un terzo posto, giocatevelo ai dadi per decidere chi deve venire. Bisogna che ci prendiamo un autista autorizzato altrimenti non ci permetteranno di viaggiare con uno dei loro preziosi veicoli, e in fondo non si può dar loro torto.»

Fu Mackay a vincere la gita offerta da Gibson, dopo di che gli altri si affrettarono a dichiarare che in fondo non ci tenevano, perché non avevano nessuna voglia di muoversi.

«Be’, questo sistema tutto» disse Gibson. «Trovatevi alla sezione trasporti, Cupola Quattro, domattina alle dieci. Adesso devo lasciarvi. Ho tre articoli che mi aspettano, o per essere esatti, un articolo con tre titoli diversi.»

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