— Credo… di aver visto qualcosa — rispose Peter — ma la luce della luna gioca brutti scherzi. Avanti, ragazzi, e tre urrà per Lucy. Sapete, mi è perfino passata la stanchezza.
Senza esitare Aslan li guidò verso sinistra, sulla collina. Al gruppetto sembrava di vivere un magico sogno: il fiume che gorgogliava, l’erba umida e quasi grigiastra, le rocce scintillanti che ben presto avrebbero raggiunto, la mole enorme e maestosa di Aslan che procedeva in silenzio. Tranne Susan e il nano, ormai gli altri potevano vederlo.
Raggiunsero un sentiero, anch’esso ripido, che si trovava di fronte agli altri precipizi. I picchi erano più alti di quelli che avevano appena disceso e non fu facile arrampicarsi, soprattutto perché dovevano procedere a zigzag. Per fortuna la luna illuminava la gola a giorno, cancellando qualsiasi zona d’ombra.
Quando non vide più i suoi punti d’orientamento, che erano la coda e le zampe posteriori di Aslan, Lucy si sentì mancare. Il leone sembrava essersi volatilizzato proprio sulla cima del precipizio, ma con uno sforzo estremo Lucy gli corse dietro e ben presto, senza respiro e con le gambe tremanti, raggiunse la collina che costituiva la loro meta da quando avevano lasciato Acquacorrente. Il dolce declivio (erica ed erba verde, e qua e là grossi blocchi di pietra che brillavano fulgidi alla luce della luna), si estendeva per una considerevole lunghezza e scompariva circa un chilometro più avanti, fra lo scintillio degli alberi. Sì, adesso Lucy riconosceva il luogo: era la collina della Tavola di Pietra.
Con le cotte di maglia che tintinnavano nella corsa, gli altri salirono dietro di lei. Aslan avanzava a passi felpati e il gruppetto lo seguì.
— Lucy — mormorò Susan con una vocina.
— Sì? — rispose Lucy.
— Io… ora lo vedo. Mi dispiace tanto.
— Non preoccuparti.
— Lucy, devo raccontarti la verità. Mi sono comportata molto peggio di quello che pensi. Ero convinta che si trattasse di lui già ieri, quando ci ha avvertiti di non scendere all’abetaia. Anche stanotte, quando ci hai svegliati, sapevo che era venuto Aslan. Avevo una sensazione dentro: se solo l’avessi ascoltata! Il fatto è che volevo uscire da quella maledetta foresta e poi… non so, ecco. Cosa posso dirgli, adesso?
— Non credo che ci sia bisogno di molte parole, Susan — suggerì Lucy.
Raggiunsero gli alberi e da lì i ragazzi videro la Casa di Aslan, che era stata eretta al tempo in cui essi regnavano a Narnia.
— I nostri non fanno buona guardia. A quest’ora avrebbero già dovuto intercettarci… — disse Briscola.
— Silenzio — intimarono gli altri quattro.
In quel momento Aslan si era voltato e li aveva guardati in faccia. Era così maestoso che da una parte ne furono immensamente felici, dall’altra intimoriti. I ragazzi gli corsero incontro e Lucy li lasciò passare. Susan e il nano, invece, arretrarono.
— Aslan — esclamò re Peter, inchinandosi su un solo ginocchio e portandosi al viso la zampa del leone, che non era certo leggera. — Sono così felice, Aslan. E al tempo stesso dispiaciuto. Ho guidato i miei compagni nella direzione sbagliata fin dall’inizio del cammino. Soprattutto ieri mattina.
— Caro, caro figlio — disse Aslan.
Poi il leone si voltò e salutò Edmund.
— Sei stato bravo, Edmund — furono le sue parole.
Poi, dopo una pausa che quasi incuteva timore, quella voce grossa e profonda chiamò: — Susan.
Lei non rispose, ma tutti furono convinti che piangesse.
— Piccola cara, tu hai ascoltato le tue paure. Ora dimenticale, lascia che ti abbracci; ecco, il coraggio è tornato?
— Un poco, Aslan — rispose Susan.
— E adesso… — esclamò il leone con voce più decisa e un ruggito appena percettibile, mentre la coda si agitava nervosamente sui fianchi — … Dov’è quel piccolo nano, famoso spadaccino, grande arciere, che non crede nei leoni? Avanti, figlio della terra, ti voglio qui, al mio cospetto! Qui! — L’ultima parola non fu un lieve ruggito, ma riassunse tutto quello che Aslan aveva detto finora.
— Per mille fantasmi. Corpo di mille naufraghi — balbettò Briscola con l’ombra di una voce.
I ragazzi, che conoscevano Aslan tanto da capire che il nano gli piaceva parecchio, non si preoccuparono. Non fu lo stesso per il povero Briscola, che a parte questo non aveva mai visto un leone in vita sua. Così, fece l’unica cosa intelligente che potesse fare. Invece di inchinarsi davanti ad Aslan, si diresse barcollando verso di lui.
Improvvisamente Aslan gli piombò addosso. Avete mai visto una gatta che porta a spasso il gattino tenendolo in bocca? La scena fu più o meno questa. Il nano, che ormai somigliava a una specie di palla informe, pendeva dalla bocca di Aslan. Il leone gli diede uno strattone e l’armatura tintinnò come l’armamentario di uno stagnino. Poi Aslan lo lanciò in aria, ma il povero nano non si fece nulla, come se fosse ricaduto su un letto. A lui, naturalmente, non sembrò così e quando tornò giù fu accolto dalla zampona vellutata di Aslan, che lo afferrò al volo con gran delicatezza, proprio come farebbe una mamma; poi lo depositò, in piedi, sul manto erboso.
— Figlio della terra, vuoi essermi amico? — chiese infine il leone.
— Io… io… sì, sì — balbettò il nano, che ancora respirava a fatica.
— Bene. La luna sta andando a dormire — disse Aslan. — Guardate dietro di voi, fra poco sorgerà l’alba e non abbiamo tempo da perdere. Voi due, figli di Adamo, e tu, figlio della terra, correte verso la collina e affrontate quello che ci sarà da affrontare.
Il nano non era ancora in grado di parlare, e dal canto loro i ragazzi non osavano chiedere se Aslan avesse intenzione di seguirli. Sfoderarono le spade tutti e tre e salutarono, poi si voltarono e si allontanarono nella foschia del primo mattino, con le armature tintinnanti. Lucy si accorse che sui loro volti non c’era la minima traccia di stanchezza: sia il Re supremo che re Edmund sembravano due uomini adulti, non dei ragazzi.
Le sorelle, di fianco ad Aslan, li seguirono con lo sguardo fino a quando scomparvero alla vista. La luce cambiava: laggiù a oriente Aravir, la stella del mattino che splende su Narnia, brillava come una piccola luna. Aslan, che sembrava più maestoso del solito, alzò la testa, scosse la criniera e ruggì.
Quel suono, profondo e vibrante come una nota bassa suonata dall’organo, si fece sempre più forte e potente, finché non scosse l’aria e la terra. Rimbombò sulla collina e da lì inondò Narnia: gli uomini di Miraz, che bivaccavano nella vallata, si svegliarono, si guardarono terrorizzati l’un l’altro e afferrarono le armi. Giù nel letto del Grande Fiume, le teste e le spalle delle ninfe emersero dalle onde, seguite dai barboni verdastri delle divinità acquatiche. Al di là del Grande Fiume, in ogni prato e nelle foreste gli orecchi vigili dei conigli spuntarono dalle tane; le testine insonnolite degli uccelli fecero capolino tra le ali, i gufi gridarono, le volpi latrarono, i porcospini borbottarono e gli alberi cominciarono ad agitare le foglie. Nelle città e nei villaggi le madri portarono i figli al seno, terrorizzate; i cani gemettero e gli uomini corsero brancolando a cercare lanterne. Lontano, verso le frontiere settentrionali, i giganti delle montagne uscirono dai portoni di castelli inaccessibili.
Quello che Lucy e Susan videro fu un’oscura marea dilagare dalle colline in ogni direzione. In un primo momento sembrò una nebbia nera che strisciasse lenta sul terreno, poi prese l’aspetto di onde increspate come quelle del mare notturno in tempesta, sempre più alte e più grandi, e infine… tutto fu chiaro: era la foresta che si muoveva. Tutti gli alberi del mondo convergevano su Aslan. Più si avvicinavano, meno somigliavano agli alberi normali, e quando l’intera brigata si inchinò e riverì il leone, salutandolo con le lunghe braccia, Lucy — che li aveva intorno a sé — vide che avevano assunto sembianze umane. Ragazze-betulla pallide e slavate scuotevano la testa; donne-salice con il viso velato di tristezza lasciavano che i capelli ricadessero indietro e puntavano gli occhi su Aslan; i faggi regali se ne stavano sull’attenti, in adorazione, seguiti da pelosi uomini-quercia, olmi snelli e malinconici, agrifogli dai capelli arruffati (gli uomini decisamente scuri, le mogli di carnagione chiara e cariche di bacche), e ancora sorbi selvatici allegri e sorridenti. Tutti non facevano che inchinarsi ad Aslan, gridando: — Aslan, Aslan! — con voce roca oppure dolce e suadente.