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La sera del terzo giorno era seduto, tanto per cambiare, sulla panca di marmo accanto al fuoco. S’era seduto su quella panca la prima sera ch’era entrato in quella stanza, in quella graziosa cella di prigione, e di solito andava a sedere laggiù quando aveva visite. In quel momento non aveva visite, ma pensava a Saio Pae.

Come tutti i cercatori di potere, Pae era sorprendentemente miope. La sua mente aveva qualcosa di frivolo, di abortivo; le mancavano profondità, affetto, immaginazione. Era, in effetti, uno strumento ben primitivo. Eppure aveva delle reali potenzialità, che, sebbene deformate, non erano andate perdute. Pae era un fisico molto astuto. O, più esattamente, era molto astuto nelle cose che riguardavano la fisica. Non aveva mai fatto nulla di originale, ma il suo opportunismo, il senso innato che gli faceva indovinare dove potesse trovarsi un vantaggio, lo portavano ogni volta al campo più promettente. Aveva il fiuto per dove mettersi al lavoro, esattamente come lo aveva Shevek, e Shevek rispettava questo fiuto tanto in lui quanto in se stesso, poiché esso costituisce per uno scienziato un attributo di singolare importanza. Era stato Pae a dare a Shevek il libro tradotto dalla lingua della Terra, il simposio sulla teoria della Relatività, le cui idee, negli ultimi tempi, erano giunte a occupare sempre di più la sua mente. Era possibile che, dopotutto, fosse venuto su Urras soltanto per incontrare Saio Pae, il suo nemico? Che fosse venuto a cercarlo, sapendo di poter ricevere dal proprio nemico ciò che non poteva ricevere dai suoi amici e fratelli, ciò che nessun anarresiano poteva dargli: la conoscenza di qualcosa di forestiero, di esterno: ricevere delle nuove…

Dimenticò Pae. Pensò al libro. Non avrebbe saputo dire con chiarezza neppure a se stesso che cosa, esattamente, egli avesse trovato così stimolante nel libro. Buona parte della fisica in esso contenuta era, in fin dei conti, arretrata; i metodi erano farraginosi, e l’atteggiamento di quegli stranieri, talvolta, del tutto antipatico. I Terrestri erano stati degli imperialisti intellettuali, dei gelosi costruttori di muri. Perfino Ainsetain, colui che aveva dato origine alla teoria, si era sentito in dovere di avvertire che la sua fisica non abbracciava altro modello che quello fisico, e che non si doveva ritenere che vi fossero compresi il metafisico, il filosofico e l’etico. La qual cosa, naturalmente, era superficialmente vera; eppure egli aveva usato il numero, il ponte tra il razionale e il percepito, tra la psiche e la materia. «Il Numero, l’Indisputabile» come l’avevano chiamato gli antichi fondatori della Nobile Scienza. Impiegare la matematica in questo senso equivaleva a impiegare il modello che precedeva tutti gli altri e ad essi conduceva. Ainsetain l’aveva saputo; con accattivante cautela aveva ammesso ch’egli credeva che la sua fisica descrivesse veramente la realtà.

Stranezza e familiarità: in ciascun movimento del pensiero Terrestre, Shevek trovò questa combinazione, e ne fu costantemente affascinato. E provò simpatia: anche Ainsetain aveva cercato una teoria unificante dei campi. Dopo avere spiegato la forza di gravità come una funzione della geometria dello spaziotempo, egli aveva cercato di estendere la sintesi fino a includere le forze elettromagnetiche. Non c’era riuscito. Già nel corso della sua vita, e per molti decenni dopo la sua morte, i fisici del suo mondo si erano allontanati dai suoi tentativi e dai suoi fallimenti, per dedicarsi alle magnifiche incoerenze della teoria quantistica e alla ricca messe tecnologica dei suoi risultati, e per concentrarsi infine sul modello tecnologico in modo talmente esclusivo da arrivare a un punto morto, una catastrofica mancanza d’immaginazione. E tuttavia la loro intuizione originaria era giusta: al punto in cui erano, il progresso era da cercare nell’indeterminatezza che il vecchio Ainsetain si era rifiutato di accettare. E il suo rifiuto era stato ugualmente giusto… a lunga scadenza. Solamente, gli erano mancati gli strumenti per dimostrarlo: le variabili di Saeba e le teorie della velocità infinita e della causa complessa. Il suo campo unificato esisteva, nella fisica Cetiana, ma esisteva in base a condizioni ch’egli forse non sarebbe stato disposto ad accettare; la velocità della luce come fattore limite era essenziale alle sue grandi teorie. Entrambe le sue Teorie della Relatività erano altrettanto belle, altrettanto valide, e utili, come sempre, anche dopo i secoli trascorsi, eppure dipendevano da una ipotesi che non poteva essere dimostrata vera, e che anzi, poteva essere, ed era stata dimostrata, in talune condizioni, falsa.

Ma una teoria in cui tutti gli elementi fossero dimostrabilmente veri non era una semplice tautologia? Nella regione dell’indimostrabile, o perfino del confutabile, giaceva l’unica possibilità di spezzare il cerchio e di progredire.

In tal caso, l’indimostrabilità dell’ipotesi della coesistenza reale — il problema contro cui Shevek aveva battuto disperatamente la testa in quegli ultimi tre giorni, e, anzi, in quegli ultimi dieci anni — aveva davvero importanza?

Egli aveva cercato a tentoni di afferrare in pugno la certezza, come se si trattasse di qualcosa che si potesse possedere. Egli aveva preteso una sicurezza, una garanzia, che non è data, e che, se fosse data, diverrebbe una prigione. Prendendo come semplice assunto, come postulato, la validità della coesistenza reale, gli si offriva la possibilità di usare le belle geometrie della relatività; e di lì sarebbe stato possibile andare avanti. Il passo successivo era perfettamente chiaro. La coesistenza della successione poteva venire trattata con uno sviluppo in serie di trasformate di Saeba; con questo modo di affrontarle, la successività e la presenza non presentavano alcuna antitesi. La fondamentale unità dei punti di vista della Sequenza e della Simultaneità diveniva palese; il concetto di intervallo serviva a collegare gli aspetti statico e dinamico dell’universo. Come aveva potuto fissare in faccia la realtà per dieci anni senza vederla? Non ci sarebbe stata alcuna difficoltà nell’andare avanti da lì. Anzi, egli era già andato avanti. Era già arrivato. Aveva visto tutto ciò che doveva venire in questo primo, apparentemente superficiale, barlume del metodo, fornitogli dall’avere compreso un insuccesso vecchio di secoli. Il muro era abbattuto. La visione era chiara e integra. Ciò ch’egli vedeva era semplice, più semplice di ogni altra cosa. Era la semplicità: e in essa era contenuta ogni complessità, ogni promessa. Era la rivelazione. Era la strada sgombra, la strada di casa, la luce.

Il suo spirito era come un bambino che correva fuori, verso la luce del sole. Senza fine, senza fine…

Eppure nella sua profonda tranquillità e felicità egli tremò di paura; le sue mani tremarono, e i suoi occhi si riempirono di lacrime, come se egli avesse fissato il sole. Dopotutto, la carne non è trasparente. Ed è strano, estremamente strano, sapere che la propria vita è stata esaudita.

E tuttavia continuò a guardare, e ad andare sempre più avanti, con la stessa gioia infantile, finché, d’improvviso, non poté più andare avanti; tornò indietro e guardandosi intorno, attraverso le lacrime vide che la stanza era buia e le alte finestre erano piene di stelle.

Il momento era andato; ed egli l’aveva lasciato andare. Non cercò di afferrarsi ad esso. Sapeva di esserne parte, non il momento parte di lui. Egli gli era affidato.

Dopo qualche tempo, si alzò con ancora un brivido e accese la lampada. Girò un poco nella stanza, toccando cose, la legatura di un libro, un paralume, lieto di essere ritornato tra questi oggetti familiari, di essere ritornato nel suo mondo… poiché in quell’istante la differenza tra questo pianeta e quello, tra Urras e Anarres, non aveva per lui maggiore significato della differenza di due granelli di sabbia sulle spiagge del mare. Non c’erano più abissi, non c’erano più muri. Non c’era più esilio. Aveva visto le fondazioni dell’universo, ed esse erano solide.

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