Ma dove poteva andare?
Da qualcuno… da qualcuno, un’altra persona. Un essere umano. Qualcuno disposto a dargli aiuto, non a venderlo. Chi? Dove?
Pensò ai figli di Oiie, i bambini che lo amavano, e per qualche tempo non riuscì a pensare ad altri. Poi gli si formò nella mente un’immagine, lontana, piccola e chiara: la sorella di Oiie. Come si chiamava? «Prometta di telefonarmi» gli aveva detto, e da allora gli aveva inviato due volte lettere d’invito a ricevimenti, scritte con grafia chiara e infantile, su carta spessa, profumata in modo dolciastro. Egli le aveva ignorate, come gli inviti di estranei. Ora le ricordò.
Insieme ricordò anche l’altro messaggio, quello che era comparso inesplicabilmente nella tasca del suo cappotto: Unisciti a noi tuoi fratelli. Ma non poteva trovare alcun fratello, su Urras. Entrò nel negozio più vicino. Era un negozio di dolci, tutto ghirigori dorati e stucchi rosa, con file di casse di vetro piene di scatole, piatti, cestini di paste e cioccolate rosse, brune, color crema e oro. Chiese alla donna dietro le casse se lo poteva aiutare a trovare un numero di telefono. Ora si sentiva sottomesso, dopo l’accesso di collera dal venditore di quadri, e così umilmente ignorante e straniero che la donna ne fu conquistata. Non solo lo aiutò a cercare il nome nella ponderosa guida dei numeri telefonici, ma compose per lui il numero al telefono del negozio.
— Pronto?
Egli disse: — Shevek. — Poi tacque. Per lui il telefono era il veicolo di urgenti necessità: comunicazioni di morti, nascite, e terremoti. Non aveva idea di che cosa dire.
— Chi? Shevek? Davvero? Come è stato caro a telefonare! Non mi dà nessun fastidio svegliarmi, se si tratta di lei.
— Dormiva ancora?
— Dormivo come un sasso, e sono ancora a letto. Si sta bene e al calduccio. Da dove mi telefona?
— Sono in via Kae Sekae, mi pare.
— E che ci fa? Venga qui. Che ore sono? Santo Dio, è quasi mezzogiorno. So dov’è, troviamoci a metà strada. Al laghetto delle barche, nei giardini del Vecchio Palazzo. Riesce a trovarlo? Senta, lei si deve assolutamente fermare, ho un ricevimento veramente paradisiaco questa sera. — Continuò a parlargli per un po’; egli disse sì a tutte le sue parole. Quando ebbe terminato la conversazione e passò davanti al banco, la donna del negozio gli sorrise. — Meglio portarle una scatola di dolci, non le pare, signore?
Egli si arrestò. — Devo farlo?
— Non guasta mai, signore.
Nella voce della donna c’era qualcosa di sfacciato e di allegro. L’aria del negozio era dolce e tiepida, come se tutti i profumi di primavera vi si fossero affollati. Shevek, fermo in mezzo alle casse di piccole graziose lussuosità, alto, pesante, con la testa fra le nuvole, ricordava quei pesanti animali nei recinti, gli arieti e i tori stupefatti dal trepido tepore primaverile.
— Le do io una cosa adatta — disse la donna, e riempì una piccola scatola metallica, squisitamente smaltata, di minuscole foglie di cioccolata e rose di zucchero. Avvolse la scatola in carta morbida, infilò il pacchetto in un’altra scatola, di cartone argentato, avvolse la scatola di cartone in un foglio di carta spesso, di colore rosa, e legò il tutto con un nastro di velluto verde. In tutti i suoi abili movimenti si poteva avvertire una sorridente e simpatica complicità, e quando diede a Shevek il pacchetto completato, ed egli lo prese mormorando un ringraziamento e si voltò per andare, non ci fu nulla di pungente nella sua voce che gli ricordava: — Fa dieci e sessanta, signore. — Avrebbe forse potuto lasciarlo andare, compatendolo, come le donne usano compatire la forza; ma egli, obbedientemente, tornò indietro e le contò il denaro.
Trovò il modo di arrivare con la metropolitana ai giardini del Vecchio Palazzo, e si recò al laghetto delle barche, dove bambini vestiti in modo affascinante facevano navigare battelli giocattolo, meravigliose piccole imbarcazioni con corde di seta e finiture in bronzo simili a gioielli. Scorse Vea dall’altra parte dell’ampio, chiaro cerchio dell’acqua e fece il giro del laghetto per raggiungerla, cosciente del sole, del vento di primavera, e degli scuri alberi del parco che mettevano le prime foglie di colore verde pallido.
Fecero colazione a un ristorante del parco, su un terrapieno coperto da un’alta cupola di vetro. Alla luce del sole, entro la cupola, gli alberi erano in piena foglia: salici, ai bordi di un laghetto dove grassi uccelli bianchi nuotavano e osservavano con indolente avidità coloro che mangiavano, in attesa di briciole. Vea non si incaricò di ordinare, indicando chiaramente che era ospite di Shevek, ma abili camerieri lo consigliarono in modo così accorto che egli ebbe l’impressione di fare ogni cosa da solo; e fortunatamente aveva molto denaro in tasca. Il cibo era straordinario. Egli non aveva mai assaggiato simili sottigliezze di gusto. Abituato a consumare due pasti al giorno, di solito saltava la colazione di mezzogiorno caratteristica degli urrasiani, ma oggi la consumò da cima a fondo, mentre invece Vea si limitò delicatamente a pizzichi e assaggi. Infine dovette fermarsi, ed ella rise nello scorgere la sua espressione colpevole.
— Ho mangiato troppo.
— Due passi possono servire.
Furono proprio «due passi»: una lenta passeggiata di dieci minuti sull’erba, e poi Vea si lasciò scivolare graziosamente all’ombra di un’alta siepe, schiarita da fiori gialli. Egli si sedette accanto a lei. Una frase usata da Takver gli venne in mente, mentre guardava i piedi sottili di Vea, decorati di piccole scarpine bianche dal tacco vertiginosamente alto. «Una speculatrice del corpo», così Takver chiamava le donne che usavano la loro sessualità come arma in una lotta di potere con gli uomini. A osservarla, Vea era la speculatrice del corpo capace di mettere fuori combattimento tutte le altre. Scarpe, abiti, cosmetici, gioielli, gesti, ogni cosa di lei gridava provocazione. Era così elaboratamente, ostentatamente un corpo femminile, che non pareva quasi più un essere umano. Incarnava tutta quella sessualità repressa degli iotici che si affacciava nei loro sogni, romanzi e poesia, nei loro infiniti quadri di nudi femminili, nella loro musica, nella loro architettura a cupole e curve flessuose, nei loro dolci, nei loro bagni e nei loro materassi. Vea era la donna dentro il tavolino.
La sua testa, completamente rasata, era spolverata di una cipria contenente minuscole scagliette di mica, e un debole luccichio offuscava la nudità dei contorni. Indossava una sciarpa o uno scialle trasparente, sotto il quale la forma e il tessuto delle sue braccia nude si mostravano ammorbiditi e protetti. Il seno era coperto; le donne iotiche non uscivano di casa a seno nudo: riservavano la sua nudità a chi la possedeva. I polsi erano carichi di braccialetti d’oro, e nel cavo della gola un singolo gioiello azzurro risaltava contro la pelle soffice.
— Come fa, a stare su?
— Che cosa? — Poiché non poteva vedere direttamente il gioiello, ella poteva pretendere di non sapere d’averlo, costringendo Shevek a indicarlo, e forse a portare la mano al di sopra del suo seno per toccare la gemma. Shevek sorrise e la toccò. — È incollata?
— Oh, quella. No, ho un piccolissimo magnetino lì, e la pietra ha un piccolissimo pezzettino di metallo nella parte posteriore, oppure è il contrario? Comunque, rimaniamo appiccicati insieme.
— Lei ha un magnete sotto la pelle? — domandò Shevek, schiettamente disgustato.
Vea sorrise e sollevò lo zaffiro, in modo ch’egli potesse vedere come ci fosse soltanto una minuscola cicatrice argentea. — Lei mi disapprova in modo così assolutamente totale… è un sollievo. Sento che qualsiasi cosa io faccia o dica, non posso cadere più in basso, nella sua opinione, poiché ho già raggiunto il fondo!
— Non è affatto vero — egli protestò. Sapeva che la donna celiava, ma conosceva poche regole di quel gioco.
— No, no; so riconoscere l’orrore morale quando lo vedo. Così. — Aggrottò la fronte in segno di disgusto; entrambi risero. — Sono davvero così diversa dalle donne di Anarres?