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— Ma che cosa ci può essere, di più personale che un nome che non è portato da nessun’altra persona vivente?

— Nessun’altra persona? Lei è l’unico Shevek?

— Finché vivo. Ce ne sono stati altri, prima di me.

— Parenti, intende dire?

— Non diamo molta importanza alle parentele; siamo tutti parenti, capisce? Non so chi siano, salvo una, nei primi anni dell’Insediamento. Una donna, che ha progettato un tipo di cuscinetto che viene usato nei macchinari pesanti: lo chiamano ancora oggi un «shevek». — Sorrise di nuovo, più ampiamente. — Ecco una buona immortalità!

Vea scosse il capo. — Santo Dio! — esclamò. — Come fate a distinguere gli uomini dalle donne?

— Be’, abbiamo scoperto alcuni metodi…

Dopo un momento, giunse la sua risata morbida e pesante. Vea si passò il dorso della mano sugli occhi, che tendevano a lacrimare nell’aria fredda. — Sì, davvero, lei è rozzo! … Hanno preso tutti dei nomi prefabbricati, allora, e hanno imparato una lingua prefabbricata… tutto nuovo?

— I Coloni di Anarres? Sì. Erano persone romantiche, credo.

— E lei no?

— No. Oggi siamo tutti molto pragmatici.

— Si può essere entrambe le cose — disse lei.

Shevek non si era aspettato alcuna sottigliezza di mente da lei. — Sì, è vero — disse.

— Che ci può essere, di più romantico della sua venuta qui da noi, tutto solo, senza una moneta in tasca, a perorare per il suo popolo?

— E a venire guastato dal lusso mentre sono qui.

— Lusso? In una camera dell’Università? Santo Dio! Poverino! Non l’hanno portata in nessun posto decente?

— Vari posti, ma tutti uguali. Mi piacerebbe conoscere meglio Nio Esseia. Ho visto soltanto l’esterno della città… la carta del pacchetto. — Usò quella frase perché era rimasto affascinato fin dall’inizio dall’abitudine urrasiana di avvolgere ogni cosa in carta pulita, allegra, o plastica, o cartone o stagnola. Roba di bucato, libri, verdura, vestiti, medicine, ogni cosa arrivava dentro strati e strati di avvolgimenti. Perfino i pacchi di carta venivano avvolti in vari strati di carta. Nessuna cosa doveva entrare in contatto con un’altra. Egli aveva cominciato a pensare che anch’egli era stato impacchettato con cura.

— Lo so. L’hanno fatta andare al Museo Storico, e poi la visita del Monumento Dobunnae, e ascoltare un’orazione al Senato! — Egli rise, poiché quello era stato esattamente l’itinerario, un giorno della precedente estate. — Lo so! Sono così sciocchi con i forestieri. Ci penserò io a farle vedere la vera Nio!

— Mi piacerebbe.

— Conosco ogni tipo di gente meravigliosa. Io faccio collezione di persone. Qui lei è intrappolato tra tutti questi professori e politicanti ammuffiti… — E continuò a raccontargliela su questo tono. Egli traeva piacere dalle chiacchiere scombussolate di Vea, esattamente come dal sole e dalla neve.

Giunsero alla piccola stazione di Amoeno. Ella aveva già il biglietto; mancava poco all’arrivo del treno.

— Non resti qui ad aspettare, gelerà.

Egli non rispose, e si limitò a rimanere lì fermo, massiccio nel cappotto bordato di pelliccia, e a fissarla amabilmente.

Ella abbassò gli occhi su un polsino del cappotto e scostò un fiocco di neve dal ricamo.

— Lei ha moglie, Shevek?

— No.

— Non ha famiglia?

— Oh… sì. La compagna, le nostre figlie. Mi scusi, pensavo a qualcosa di diverso. Una «moglie», vede, mi fa pensare a qualcosa che esiste solo su Urras.

— Che cos’è una «compagna»? — Lo fissò maliziosamente negli occhi.

— Penso che voi direste una moglie.

— Perché non è venuta con lei?

— Non desiderava venire; e la figlia più piccola ha solo un anno… no, due, adesso. Inoltre… — Esitò.

— Perché non desiderava venire?

— Be’, là ha del lavoro da fare, qui no. Se avessi saputo quanto le sarebbero piaciute tante cose che avete qui, le avrei chiesto di venire. Ma non gliel’ho chiesto. C’è la questione della sicurezza, sa.

— La sicurezza qui?

Egli esitò ancora, e infine disse: — Anche quando tornerò a casa.

— Che cosa le succederà? — chiese Vea, ad occhi spalancati. Il treno stava risalendo la collina, appena fuori città.

— Oh, forse nulla. Ma alcuni mi considerano un traditore. Perché cerco di fare amicizia con Urras, vede. Potrebbero fare qualcosa quando tornerò a casa. Non voglio che succeda a lei e ai bambini. Ne abbiamo provato un po’, prima che partissi. Abbastanza.

— Sarà in pericolo di vita, vuol dire?

Si chinò verso di lei per sentire, poiché il treno stava entrando in stazione con un clangore di ruote e respingenti. — Non so — disse, sorridendo. — Sa che i nostri treni sono molto simili a questi? Un buon progetto non ha bisogno di cambiamenti. — Andò con lei a un vagone di prima classe. Poiché ella non apriva lo sportello, lo aprì lui. Infilò la testa nello scompartimento, quando Vea fu entrata, guardandosi intorno. — All’interno non sono affatto uguali, però! Questo è tutto privato… per lei sola?

— Oh, certo. Detesto la seconda classe. Uomini che masticano gomma di maera e sputano in terra. La gente mastica maera, su Anarres? No, certamente no. Oh, ci sono così tante cose che vorrei sapere di lei e del suo paese!

— Mi piace parlarne, ma nessuno me le chiede.

— Ma allora incontriamoci davvero e parliamone! La prossima volta che sarà a Nio, mi telefonerà? Promessa.

— Lo prometto — rispose lui, sorridendo.

— Ottimo! So che lei non rompe le promesse. Non so ancora niente di lei, eccetto questo. Questo posso vederlo. Arrivederci, Shevek. — Posò la mano guantata sulla sua per un istante, mentre egli teneva ancora aperto lo sportello. La locomotiva diede il segnale a due note della partenza; egli chiuse lo sportello e rimase a guardare il treno che si allontanava, e il viso di Vea simile a un guizzo di bianco e di rosso al finestrino.

Ritornò dagli Oiie con lo spirito molto allegro, e fece a palle di neve con Ini fino a quando non scese il buio.

RIVOLUZIONE IN BENBILI! DITTATORE FUGGE!
CAPI RIBELLI TENGONO LA CAPITALE!
SEDUTA DI EMERGENZA AL CGM. PROBABILITÀ
A-IO POSSA INTERVENIRE.

Il giornale popolare raggiungeva, a causa dell’eccitazione, i caratteri tipografici più grossi. L’ortografia e la grammatica si erano perse per strada; si leggeva come le frasi di Efor: «Con ieri notte ribelli tengono tutto l’occidente di Meskti e costringono in ritirata l’esercito…». Era il tempo dei verbi Nioti: passato e futuro pigiati in un unico presente, fortemente carico e instabile.

Shevek lesse i giornali e cercò nell’Enciclopedia del Consiglio dei Governi Mondiali una descrizione del Benbili. La nazione era formalmente una democrazia parlamentare, di fatto una dittatura militare, in mano a generali. Era un vasto paese dell’emisfero occidentale, montagne e savane aride, spopolato, povero. «Sarei dovuto andare nel Benbili» Shevek pensò, poiché l’idea del paese lo attirava; immaginava pianure pallide, il vento che soffiava. La notizia l’aveva scosso in modo strano. Egli ascoltava i bollettini alla radio, che in passato non aveva quasi mai acceso dopo avere scoperto che la sua funzione fondamentale era quella di fare pubblicità a cose in vendita. I rapporti della radio, e quelli del telex ufficiale nelle stanze di riunione, erano brevi e asciutti: bizzarro contrasto con i giornali popolari, che gridavano Rivoluzione! in ogni pagina.

Il generale Havevert, il Presidente, era riparato indenne nel suo famoso aereo blindato, ma alcuni generali di rango inferiore erano stati presi ed evirati, punizione che i Benbili preferivano tradizionalmente all’esecuzione. L’armata in ritirata bruciava i campi e le città del proprio popolo mentre passava. Guerriglieri partigiani tendevano agguati ai militari. I rivoluzionari di Meskti, la capitale, aprirono le prigioni, dando amnistia a tutti i carcerati. Leggendo questo, Shevek sentì il cuore balzargli in petto. C’era speranza, c’era ancora speranza… Seguì le notizie della lontana rivoluzione con crescente interesse. Il quarto giorno, osservando la trasmissione di un dibattito al Consiglio dei Governi Mondiali, vide l’ambasciatore iotico al CGM annunciare che l’A-Io, muovendosi a sostegno del governo democratico del Benbili, inviava rinforzi armati al Presidente Generale Havevert.

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