Nella voce di Takver c’era ancora un po’ di risentimento. — Tu, non te ne sei mai dovuto accorgere.
— E perché?
— Perché, credo, non ne hai mai visto la possibilità.
— Cosa intendi dire, la possibilità?
— La persona!
Egli pensò a queste parole. Sedevano a circa un metro di distanza l’uno dall’altra, con le braccia strette attorno ai ginocchi poiché stava scendendo il freddo. Il respiro arrivava in gola come acqua ghiacciata. Potevano vedere il loro respiro, il pallido vapore nella luce lunare che si alzava progressivamente.
— Il momento in cui me ne accorsi — disse Takver, — fu la notte prima che tu lasciassi l’Istituto Regionale. C’era una festa, lo ricorderai. Alcuni di noi rimasero a parlare per tutta la notte. Ma è successo quattro anni fa. E tu non conoscevi neppure il mio nome. — Il rancore era scomparso dalla sua voce; pareva desiderasse fornirgli delle scusanti.
— Tu vedesti in me, quella notte, ciò che io ho visto in te in questi quattro giorni?
— Non lo so. Non posso dirlo. Non si trattava soltanto di una cosa sessuale. Io ti avevo già notato prima, sotto quell’aspetto. Ma quella volta fu differente; io ti vidi. Non posso sapere cosa tu veda ora. E allora non sapevo veramente cosa io vedessi. Non ti conoscevo molto bene. Però, quando parlasti, mi parve di vedere chiaro dentro di te, fino al centro. Ma tu potevi essere totalmente diverso dal modo in cui io ti pensavo. Non sarebbe stata colpa tua, in fin dei conti — aggiunse. — Semplicemente, sapevo che ciò che vedevo in te era ciò che mi occorreva. Non solamente ciò che potevo desiderare!
— E sei ad Abbenay da due anni e non…
— Non ho fatto cosa? Era tutto dalla mia parte, nella mia testa, tu non conoscevi neppure il mio nome. Una persona sola non può fare un’unione, dopotutto!
— E avevi paura che, venendo da me, io avrei potuto non desiderare il legame.
— Non paura. Sapevo che eri una persona che… non si sarebbe lasciata forzare… Be’, sì, avevo paura. Avevo paura di te. Non di fare un errore. Sapevo che non era un errore. Ma tu eri… tu. Tu sei diverso da tanti altri, lo sai. Io avevo paura di te perché sapevo che eri un mio uguale! — Il suo tono, nel terminare, era fiero, ma dopo un istante disse molto gentilmente, con tenerezza: — Non ha veramente importanza, sai, Shevek.
Era la prima volta che le sentiva pronunciare il suo nome. Si voltò verso di lei e le disse incespicando, quasi soffocando sulle parole: — Non ha importanza? Prima mi fai vedere… mi fai vedere qual è la cosa importante, la cosa veramente importante, la cosa che mi è mancata per tutta la vita… e poi dici che non ha importanza!
Erano a faccia a faccia, adesso, ma non si erano toccati.
— È quello che ti occorre, allora?
— Sì. Il legame. La possibilità.
— Adesso… per la vita?
— Adesso e per la vita.
Vita, ripeteva il flusso di acqua scorrente sotto di loro, sulle rocce, nella fredda oscurità.
Quando Shevek e Takver tornarono dalle montagne, si trasferirono in una stanza doppia. Non ce n’era nessuna libera negli isolati vicino all’Istituto; ma Takver ne conosceva una non molto distante, in un vecchio domicilio all’estremità nord della città. Per avere la stanza si recarono dall’amministratore delle abitazioni dell’isolato — Abbenay era divisa in circa duecento zone amministrative locali, chiamate isolati — una donna che molava lenti e che teneva in casa i suoi tre bambini piccoli. Per tale motivo teneva le schede delle abitazioni in un ripiano in cima a un armadio, in modo che i bambini non potessero metterci le mani. Controllò che la stanza fosse registrata come vuota. Shevek e Takver la registrarono come occupata apponendo le loro firme.
Neppure il trasloco fu complicato. Shevek portò una scatola piena di carte, i suoi stivali da inverno, e la coperta colore arancione. Takver dovette fare tre viaggi. Il primo ebbe come destinazione il deposito distrettuale di capi d’abbigliamento, per prendere un vestito nuovo a ciascuno dei due, atto che le pareva oscuramente, ma fortemente, essenziale all’inizio del loro legame di compagni. Poi si recò al proprio vecchio dormitorio, una volta per i suoi vestiti e le sue carte, e una seconda volta, con Shevek, per prendere una quantità di curiosi oggetti: complesse strutture concentriche di fil di ferro, che si muovevano in modo lento, cambiando intimamente, quando venivano appese al soffitto. Le aveva fatte lei, con pezzi di filo e arnesi del deposito strumenti per artigiani, e le chiamava Occupazioni di Spazi Disabitati. Una delle due sedie della stanza era decrepita, cosicché la portarono in una bottega di riparazioni, dove ne presero una sana. Con questa, la stanza fu arredata. La nuova stanza aveva soffitto molto alto, e ciò la faceva parere spaziosa e lasciava un mucchio di posto per le Occupazioni. Il domicilio era costruito su una delle basse colline di Abbenay, e la stanza aveva una finestra d’angolo da cui entrava la luce del pomeriggio: da quella finestra si godeva la vista della città, le strade e le piazze, i tetti, il verde dei parchi, la pianura al di là della città.
L’intimità dopo la lunga solitudine, la gioia improvvisa, misero alla prova sia la stabilità di Shevek sia quella di Takver. Nelle prime decadi egli ebbe grandi oscillazioni dalla spensieratezza alla angoscia; ella ebbe scatti di collera. Entrambi erano ipersensibili e inesperti. La tensione non durò, a mano a mano che divennero esperti l’uno dell’altra. La loro fame sessuale continuò come diletto appassionato, il loro desiderio di unione veniva quotidianamente rinnovato perché veniva quotidianamente esaudito.
Era ormai chiaro a Shevek, e gli sarebbe parsa follia pensare diversamente, che i suoi anni di disperazione in quella città erano parte della sua grande felicità presente, poiché l’avevano portato ad essa, l’avevano preparato ad essa. Ogni cosa che gli era successa faceva parte di ciò che gli stava succedendo ora. Takver non vedeva una simile oscura concatenazione di effetto/causa/effetto, ma Takver non era un fisico temporale. Ella vedeva il tempo in modo ingenuo, come una strada stesa. Tu avanzavi, e arrivavi in qualche parte. Se eri fortunato, arrivavi in qualche parte che valeva la pena di andarci.
Ma quando Shevek prese quella metafora e la riformulò nei propri termini, spiegando che, a meno che il passato e il futuro non divenissero parte del presente mediante il ricordo e l’intenzione, non c’era, in termini umani, alcuna strada, alcun punto dove andare, ella annuì prima ch’egli fosse giunto a metà. — Esattamente — disse. — Questo è ciò che ho fatto per gli scorsi quattro anni. Non è tutta fortuna. Soltanto una parte.
Takver aveva ventitré anni: uno meno di Shevek. Era cresciuta in una comunità agricola, Valle Rotonda, nel Nordest. Era un posto isolato, e prima di giungere all’Istituto Regionale Settentrionale, ella aveva lavorato più duramente del normale, per un giovane anarresiano. Non c’erano abbastanza persone a Valle Rotonda per fare i lavori che occorrevano, ma non era una comunità abbastanza grande, o abbastanza produttiva nell’economia generale, per ottenere la priorità dai calcolatori della Divisione del Lavoro. Doveva badare a se stessa. A otto anni, Takver toglieva pagliuzze e sassolini dal grano di holum al mulino, tre ore al giorno, dopo tre ore di scuola. Poca della sua istruzione pratica di bambina era rivolta all’arricchimento personale: era solo parte dello sforzo della comunità per sopravvivere. Nelle stagioni della semina e del raccolto, ogni persona superiore ai dieci anni e inferiore ai sessanta lavorava nei campi, tutto il giorno. A quindici anni era stata incaricata di coordinare i carichi di lavoro sui quattrocento campi coltivati dalla comunità, e aveva assistito il dietetista nel refettorio della cittadina. Non c’era niente d’inconsueto in tutto ciò, e Takver non vi dava molto peso, ma inevitabilmente queste esperienze avevano plasmato certi elementi del suo carattere e delle sue opinioni. Shevek era lieto di avere fatto la propria parte di kleggich, di lavoro duro, perché Takver disprezzava la gente che cercava di evitare la fatica fisica. — Guarda Tinan — diceva, — che piange e si lamenta perché l’hanno comandato per quattro decadi al raccolto delle radici di holum. È così delicato che potresti crederlo un uovo di pesce! Avrà mai toccato il letame? — Takver non era molto caritatevole, e aveva un carattere facile ad andare in collera.