Eppure Shevek a volte si domandò, continuando a vedere Bedap quasi quotidianamente, che cosa fosse ciò ch’egli amava, la cosa di cui si fidava, nell’amico. Trovava detestabili le opinioni nutrite in quel periodo da Bedap, e trovava fastidiosa la sua insistenza nel parlarne. Discutevano ferocemente tra loro quasi ogni volta. Si causavano reciprocamente molto dolore. Nel lasciare Bedap, spesso Shevek si accusava di volere soltanto rimanere caparbiamente abbarbicato a una amicizia che ormai aveva fatto il suo tempo, e si riprometteva con rabbia di non rivedere Bedap.
La verità, tuttavia, era che egli amava Bedap, da uomo, più di quanto non l’avesse mai amato da ragazzo. Inetto, insistente, dogmatico, distruttivo: Bedap poteva essere tutto ciò; ma aveva raggiunto una libertà di mente che Shevek cercava, anche se ne odiava l’espressione. Egli aveva cambiato la vita di Shevek, e Shevek lo sapeva: sapeva che finalmente stava andando avanti, e che era stato Bedap a permettergli di andare avanti. Combatté Bedap ad ogni passo del cammino, ma continuò ad avanzare, a discutere, a fare del male e a riceverlo, a trovare — nella rabbia, nella negazione, nel rifiuto — ciò che cercava. Non sapeva che cosa cercasse. Ma sapeva dove cercarlo.
Era, consciamente, un anno altrettanto infelice per lui quanto l’anno che l’aveva preceduto. Continuava a non fare alcun progresso nel suo lavoro; anzi, in realtà aveva abbandonato del tutto la fisica temporale ed era ritornato all’umile lavoro di laboratorio, aiutato da un tecnico abile e taciturno, a studiare le velocità subatomiche. Era un campo molto frequentato, e il suo tardivo ingresso venne accolto dai colleghi come l’ammissione che aveva finalmente smesso di cercare di essere originale. L’Unione dei Membri dell’Istituto gli assegnò un corso d’insegnamento, fisica matematica per studenti del primo anno. Non ricavò alcun senso di trionfo dal fatto che finalmente gli fosse dato un corso, poiché era proprio così: il corso gli era stato dato, gli era stato permesso. Ricavava scarso piacere da ogni cosa. Il fatto che le pareti della sua coscienza rigorosa e puritana si stessero allargando immensamente non gli era affatto di conforto. Si sentiva freddo e sperduto. Ma non aveva luogo in cui ritirarsi, non aveva riparo, così continuò ad addentrarsi nel freddo, perdendosi sempre più.
Bedap si era fatto molti amici, un gruppo instabile e disaffezionato, e alcuni di loro presero in simpatia il giovane timido. Non si sentiva più vicino a loro di quanto non si sentisse vicino alle persone, più convenzionali, ch’egli conosceva all’Istituto, ma trovava assai più interessante la loro indipendenza di mente. Essi conservavano l’autonomia della coscienza anche a costo di diventare degli eccentrici. Alcuni di loro erano dei nuchnibi intellettuali che da anni non lavoravano a un’assegnazione regolare. Shevek li disapprovava severamente, quando non era con loro.
Uno di essi era un compositore chiamato Salas. Salas e Shevek desideravano imparare l’uno dall’altro. Salas conosceva poco la matematica, ma finché Shevek riusciva a spiegare la fisica con modelli analogici o esperienziali, era un ascoltatore intelligente e insaziabile. Allo stesso modo Shevek ascoltava ogni cosa che Salas potesse dirgli sulla teoria musicale, ed ogni cosa da lui suonata su nastro o col suo strumento, la portativa. Ma alcune cose che Salas gli disse gli parvero estremamente preoccupanti. Salas aveva un incarico in un gruppo di escavazione di un canale nella Piana del Temae, ad oriente di Abbenay. Veniva in città nei tre giorni liberi di ogni decade, e andava da una o dall’altra delle ragazze. Shevek aveva dato per scontato che avesse scelto quell’incarico perché voleva un po’ di lavoro all’aperto, tanto per cambiare; ma poi seppe che Salas non aveva mai avuto un’assegnazione in campo musicale, soltanto assegnazioni da manovale non qualificato.
— Come sei elencato alla Divisione del Lavoro? — chiese, perplesso.
— Gruppo di fatica comune.
— Ma sei addestrato! Hai fatto sei, otto anni al conservatorio dell’Unione Musicale, no? Perché non ti assegnano a insegnare musica?
— Mi hanno assegnato. Mi sono rifiutato. Non sarò pronto a insegnare se non tra una decina d’anni. Sono un compositore, ricorda, non un esecutore.
— Ma ci devono essere degli incarichi per compositori.
— E dove?
— All’Unione Musicale, suppongo.
— Ma i membri dell’Unione non amano le mie composizioni. E al momento non ci sono molti altri che le amino. Non posso fare un’unione da solo, non ti pare?
Salas era una persona ossuta e di bassa statura, era già calvo sul cranio e sulla parte superiore del viso; quel che gli restava dei capelli, lo portava corto, a mo’ di frangia chiara che gli copriva il mento e la nuca. Aveva un sorriso dolce, che copriva di rughe il suo volto espressivo. — Capisci, io non scrivo nel modo in cui mi hanno insegnato a scrivere al conservatorio. Scrivo musica disfunzionale. — Sorrise in modo ancora più dolce del solito. — Loro desiderano i corali. Io aborro i corali. Vogliono pezzi ampiamente armonici, come quelli scritti da Sessur. Io odio la musica di Sessur. Ora sto scrivendo un pezzo di musica da camera. Pensavo che potrei chiamarlo Il principio di simultaneità. Cinque strumenti, ciascuno dei quali suona un tema ciclico indipendente; nessuna causalità melodica; il processo in avanti sta completamente nei rapporti tra le parti. Ne viene una bella armonia. Ma loro non lo ascolteranno. Non possono!
Shevek meditò un poco sulle sue parole. — Se lo chiamassi Le gioie della solidarietà — disse, — lo ascolterebbero?
— Accidenti! — disse Bedap, che stava ascoltando. — Questa è la prima frase cinica da te pronunciata in tutta la tua vita, Shevek. Benvenuto nel gruppo!
Salas rise. — L’ascolterebbero, ma non l’accetterebbero per la registrazione o l’esecuzione regionale. Non è nello Stile Organico.
— Niente di strano che non abbia mai ascoltato musica moderna quando ero nell’Insediamento Settentrionale. Ma come possono giustificare questo tipo di censura? Tu scrivi musica! La musica è un’arte cooperativa, organica per definizione, sociale. Forse è la più nobile forma di comportamento sociale di cui siamo capaci. È certamente una delle gioie più nobili che un individuo possa assumersi. E per sua natura, per la natura comune di tutte le arti, è una condivisione. L’artista divide con altri, è questa l’essenza del suo atto. Indipendentemente da ciò che possono dire i membri della tua Unione, come può giustificare, la Divisione del Lavoro, il fatto che non ti sia dato un incarico nel tuo stesso campo?
— Non vogliono condividerla — disse Salas, allegramente. — La temono.
Bedap parlò con maggiore serietà: — Possono giustificarlo perché la musica non è utile. Scavare canali è importante, lo sai; la musica è semplice decorazione. Si è fatto tutto il giro del cerchio, fino a ritornare alla più vile forma di utilitarismo profittatoriale. La complessità, la vitalità, la libertà d’invenzione e d’iniziativa che erano il centro dell’ideale Odoniano, le abbiamo gettate via tutte. Siamo tornati direttamente alla barbarie. Se una cosa è nuova, fuggila subito; se non puoi mangiarla, gettala via!
Shevek pensò al proprio lavoro e non ebbe nulla da obiettare. Eppure non poteva unirsi alla critica di Bedap. Bedap l’aveva costretto a comprendere di essere, in realtà, un rivoluzionario; ma egli sentiva profondamente di essere tale a causa della sua educazione e della sua istruzione di Odoniano e anarresiano. Non poteva ribellarsi contro la sua società, poiché la sua società, giustamente concepita, era una rivoluzione, una rivoluzione permanente, un processo continuo. Per riaffermarne la validità e la forza, egli pensava, bastava soltanto agire, senza timore di punizione e senza speranza di premio: agire dal centro della propria anima.