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Portò tutta la questione alla Federativa di Fisica, alle cui riunioni Sabul si prendeva raramente la briga di assistere. Nessuno laggiù dava importanza alla libera comunicazione con il nemico ideologico. Alcuni dei presenti tennero sermone a Shevek per il fatto che lavorava in un campo talmente arcano che, per sua stessa ammissione, non c’era un’altra persona su tutto il pianeta capace di comprenderlo. — Ma si tratta soltanto dal fatto che è un campo nuovo — egli disse, la qual cosa non lo fece approdare a nulla.

— Se è nuovo, condividilo con noi, non con i proprietaristi!

— Da un anno chiedo ogni trimestre di fare un corso. Voi dite ogni volta che non c’è sufficiente richiesta. Ne avete paura perché è nuovo?

Questo non gli procurò alcun amico. Se ne andò incollerito.

Continuò a scrivere lettere a Urras, anche se non ne inviava nessuna. Il fatto di scrivere per qualcuno che poteva capire — che avrebbe potuto capire — gli rendeva possibile scrivere, pensare. In altro modo non gli era possibile.

Le decadi passarono, e così i trimestri. Due o tre volte all’anno giungeva il premio: una lettera di Atro o di un altro fisico di A-Io o di Thu, una lunga lettera, scritta fittamente, fitta di dimostrazioni, tutta teoria dal saluto alla firma, tutta profonda astrusa fisica temporale metamatematico-etico-cosmologica, scritta in una lingua ch’egli non sapeva parlare, da uomini ch’egli non conosceva, che cercavano ferocemente di rintuzzare e distruggere le sue teorie, nemici della sua patria, rivali, stranieri, fratelli.

Per giorni interi, dopo aver ricevuto una lettera, era irascibile e gioioso, lavorava giorno e notte, sprizzava idee come una fontanella. Poi, lentamente, con sforzi disperati, divincolandosi, egli ritornava sulla terra, sulla terra arida, prosciugata.

Stava terminando il terzo anno all’Istituto quando Garab morì. Egli chiese di parlare al suo rito funebre, che venne tenuto, come si usava, nel luogo dove la persona defunta aveva lavorato: in questo caso una delle aule di lezione, nell’edificio dei laboratori di Fisica. Fu lui l’unico oratore. Nessuno studente venne ad assistere; Garab non aveva insegnato negli ultimi due anni. Vennero alcuni anziani membri dell’Istituto, e c’era anche il figlio di Garab, un uomo di mezza età che faceva il chimico agrario nel Nordest. Shevek si mise dove si metteva sempre Garab per fare lezione. Disse a questa gente, con la voce arrochita dalla tosse che ormai lo colpiva ogni inverno, che Garab aveva gettato le fondamenta della scienza del tempo, e che era il massimo cosmologo che avesse mai lavorato all’Istituto. — Noi fisici abbiamo ora la nostra Odo — disse. — L’abbiamo, e non l’abbiamo mai onorata. — Dopo l’orazione, una vecchia lo ringraziò, con le lacrime agli occhi. — Prendevamo sempre il decimo giorno insieme, io e lei, a far le pulizie nel nostro isolato; ci divertivamo così tanto a chiacchierare — disse, rabbrividendo al vento gelido mentre uscivano dall’edificio. Il chimico agrario mormorò convenevoli e scappò via di corsa per trovare il passaggio che lo riportasse nel Nordest. In una collera di dolore, impazienza, senso di futilità, Shevek si allontanò dall’Istituto e si mise a camminare senza meta per le vie cittadine.

Tre anni all’Istituto, e che cosa aveva combinato? Un libro, di cui si era appropriato Sabul; cinque o sei articoli inediti; e un’orazione funebre per una vita sprecata.

Nulla di quanto faceva veniva compreso. Per dirlo più onestamente, nulla di quanto faceva era significativo. Egli non svolgeva alcuna funzione necessaria, personale o sociale. In realtà — fenomeno non raro nel suo campo — si era bruciato a vent’anni. Non avrebbe mai raggiunto qualcosa di più. Era definitivamente giunto al muro.

Si fermò davanti all’auditorium dell’Unione Musicale per leggere il programma della decade. Quella sera non c’era concerto. Si voltò per allontanarsi dal manifesto e si trovò a faccia a faccia con Bedap.

Bedap, sempre sulla difensiva e un po’ miope, non diede segno di riconoscimento. Shevek lo prese per il braccio.

— Shevek! Accidenti, sei proprio tu! — Si abbracciarono, si baciarono, si staccarono, si abbracciarono una seconda volta. Shevek era sopraffatto dall’amore. Perché mai? Non aveva provato molto affetto per Bedap neppure in quell’ultimo anno, all’Istituto Regionale. Non si erano mai scritti, nei tre anni passati da allora. La loro amicizia risaliva agli anni dell’adolescenza, era passata. Eppure c’era dell’amore: fiammeggiava come carboni scossi.

Camminarono, si parlarono, e nessuno dei due si accorse della direzione che prendevano. Gesticolavano e si interrompevano. Le ampie strade di Abbenay erano tranquille nella notte invernale. A ciascun incrocio il pallido lampione creava una polla argentea, in cui si agitava una neve secca, simile a frotte di minuscoli pesci, che rincorreva le loro ombre. Con la neve si era alzato un vento gelido, tagliente. Le labbra insensibili e il battito di denti cominciarono a disturbare la conversazione. Presero l’omnibus delle dieci, l’ultimo, per l’Istituto; il domicilio di Bedap era lontano, alla periferia orientale della città, una lunga camminata nel freddo.

Egli osservò la Stanza 46 con ironica meraviglia. — Shevek, tu vivi come un marcio profittatore urrasiano.

— Su, via, non sono a quel punto. Prova a indicare qualcosa di escrementale! — La stanza, infatti, conteneva quasi esclusivamente ciò che conteneva quando Shevek vi era entrato la prima volta. Bedap indicò: — Quella coperta.

— Quella c’era già al mio arrivo. Qualcuno deve averla fatta a mano e poi lasciata qui quando se n’è andato. Ti pare che una coperta sia eccessiva in una notte come questa?

— Si tratta chiaramente di un colore escrementale — disse Bedap. — Come analista di funzioni, devo farti notare che non c’è bisogno dell’arancione. L’arancione non svolge alcuna funzione vitale nell’organismo sociale, né al livello cellulare né a quello organico, e certamente non al livello olo-organismico, cioè a quello di maggiore centralità etica; in questo caso la tolleranza è una scelta molto meno buona che non l’escrezione. Devi tingerla verde marcio, fratello! E che cos’è tutta questa roba?

— Appunti.

— In cifrario segreto? — chiese Bedap, curiosando in un quaderno con la freddezza che, come Shevek poteva ricordare, gli era caratteristica. Il suo senso della sfera privata, della proprietà privata, era addirittura inferiore a quello di gran parte degli anarresiani. Bedap non aveva mai avuto una matita preferita ch’egli amasse portare con sé, o una vecchia camicia di cui si fosse innamorato e che non volesse mai gettare nel contenitore della riciclazione, e se gli veniva fatto un dono, egli cercava di tenerlo con sé per riguardo verso il donatore, ma finiva sempre per perderlo. Si vergognava un po’ di questo suo tratto e diceva che dimostrava come egli fosse meno primitivo degli altri, un primo esempio dell’Uomo Promesso, il vero ed originario Odoniano. Eppure egli aveva il senso del riserbo. Cominciava nel cranio, suo o di qualsiasi altro, e di lì in poi era completo. Non spiava mai. Ora disse: — Ricordi le stupide lettere che ci scrivevamo in codice quando eri al progetto d’imboschimento?

— Questo non è un cifrario segreto: è iotico.

— Hai imparato lo iotico? Perché lo usi per scrivere?

— Perché nessuno, su questo pianeta, capisce ciò che dico. Né desidera capirlo. L’unica persona che lo capiva è morta tre giorni fa.

— Sabul è morto?

— No. Garab. Sabul non è morto. Sarebbe bello!

— Qual è il guaio?

— Il guaio con Sabul? Per metà l’invidia, per l’altra metà l’incompetenza.

— Pensavo che il suo libro sulla causalità fosse eccellente. Lo dicevi tu.

— Anch’io lo pensavo, finché non ne ho letto le fonti. Sono tutte idee urrasiane. E neppure nuove, per giunta. Sono vent’anni che non fa niente di originale. E che non fa un bagno.

— E tu, cosa pensi? — chiese Bedap, posando una mano sul quaderno e fissando Shevek con uno sguardo preoccupato. Bedap aveva occhi piccoli, tendenti a socchiudersi come avviene per i miopi, viso robusto, corporatura massiccia. Si mangiava le unghie, che, dopo anni di questa pratica, si erano ridotte a semplici strisce sui polpastrelli spessi e sensibili.

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