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Le forme singolari dei pronomi e aggettivi possessivi erano usate, in pravico, soprattutto come forme enfatiche: l’uso colloquiale le evitava. Un bambino piccolo poteva dire «la mia mamma», ma presto imparava a dire «la madre». Per dire: «Questo è il mio e quello è il tuo», in pravico si diceva: «lo uso questo, tu usi quello.» Le parole di Mitis: «Sarai un uomo suo» avevano un suono strano. Shevek la fissò sorpreso.

— Hai un lavoro da fare — disse Mitis. Aveva gli occhi scuri: ora lampeggiarono, come per l’ira. — Fallo! — Poi uscì dalla stanza, poiché un gruppo la attendeva in laboratorio. Confuso, Shevek abbassò gli occhi sul frammento di carta. Pensò che Mitis intendesse dirgli di fare in fretta a correggere le equazioni. Soltanto molto tempo più tardi comprese cosa avesse inteso dirgli in realtà.

La notte precedente la sua partenza per Abbenay, gli altri studenti organizzarono una festa in suo onore. Le festicciole erano frequenti, bastava il minimo pretesto, ma Shevek fu sorpreso nel vedere con quanta energia gli altri la organizzarono, e si chiese perché fosse una così bella festa. Poiché gli altri non lo influenzavano, egli non si era mai accorto di avere influenza su di loro; non aveva idea del fatto che gli altri lo amassero.

Molti di loro dovevano avere risparmiato sulle proprie razioni quotidiane, in vista della festa, per giorni e giorni. C’erano incredibili quantità di cibo. L’ordinazione di pasticceria era così grande che il fornaio del refettorio aveva dato libero corso alla propria fantasia e aveva prodotto raffinatezze inedite: cialde speziate, piccoli quadrati dal gusto pizzicante, per accompagnare il pesce affumicato, frittelle dolci, unte e appetitose. C’erano succhi di frutta, frutta conservata della regione del Mare Kerano, minuscoli gamberetti, montagnole di patatine fritte, dolci. L’abbondanza e la ricchezza del cibo era intossicante. Tutti erano molto allegri, e alcuni finirono con lo star male.

Ci furono imitazioni e altri intrattenimenti, alcuni preparati, altri improvvisati. Tirin si mise addosso tutta una raccolta di stracci, tolti dal secchio della riciclazione, e prese a girare in mezzo a loro come l’Urrasiano Povero, il Mendicante: una delle parole iotiche che tutti avevano imparato studiando storia. — Datemi del denaro - gemeva, agitando la mano sotto il loro naso. — Denaro! Denaro! Perché non mi date del denaro? Non ne avete? Bugiardi! Sporchi proprietaristi! Profittatori! Guardate tutto quel cibo: come l’avete preso, se dite di non avere denaro? — Infine si mise in vendita. — Ombratemi, ombratemi, per solo un po’ di denaro — si mise a ripetere in tono suadente.

— Non si dice ombrare, si dice comprare — lo corresse Rovab.

— Ombratemi, compratemi, chi se ne frega, guardate che corpo affascinante, non lo desiderate? — ripeteva Tirin, agitando i fianchi magri, e battendo le palpebre. Alla fine venne ucciso pubblicamente con un coltello per il pesce e riapparve vestito normalmente. Tra di loro c’erano bravi suonatori d’arpa e cantanti, e ci fu molta musica e danza, ma ancora di più ci furono parole. Parlavano tutti come se l’indomani dovessero diventare muti.

Con il proseguire della notte i giovani amanti si allontanarono per copulare, nelle stanze singole; altri, colti dal sonno, si recarono nei dormitori; infine rimase soltanto un piccolo gruppo, fra i bicchieri vuoti, le lische di pesce e le briciole di pane: tutta pulizia da fare prima del mattino. Ma al mattino mancavano ancora varie ore. Parlarono. E mentre parlavano mangiucchiavano questo e quello. C’erano Bedap e Tirin e Shevek, un paio di altri ragazzi, tre ragazze. Parlarono della rappresentazione spaziale del tempo sotto forma di ritmo, e della connessione delle antiche teorie delle Armonie Numeriche con la moderna fisica temporale. Parlarono dello stile preferibile per nuotare sulle lunghe distanze. Parlarono del fatto se la loro fanciullezza fosse stata felice. Parlarono sulla natura della felicità.

— La sofferenza è un malinteso — disse Shevek, piegato in avanti, con gli occhi chiari spalancati. Era ancora magro, con grandi mani, orecchie sporgenti, giunture nodose, ma nel pieno della salute e delle forze, da giovane adulto, era assai bello. I capelli, color sabbia come quelli degli altri, erano fini e dritti: li portava alla loro piena lunghezza e li teneva discosti dalla fronte con un nastro. Di tutti i presenti, soltanto uno portava un’acconciatura diversa: una ragazza dagli zigomi alti e dal naso largo; si era tagliata i capelli neri in modo da formare una calotta lucente intorno al capo. Questa ragazza fissava ora Shevek con uno sguardo serio e fermo. Le sue labbra erano unte per avere mangiato le frittelle, e sul mento c’era una briciola.

— Essa esiste — diceva Shevek, allargando le mani. — È reale. Io posso chiamarla un malinteso, ma non posso pretendere che non esista, o che una volta o l’altra non esisterà più. La sofferenza è la condizione a cui viviamo. E quando arriva, la riconosciamo. La riconosciamo come la verità. E, certamente, è giusto curare le malattie, prevenire la fame e l’ingiustizia, come fa l’organismo sociale. Ma nessuna società può cambiare la natura dell’esistenza. Non possiamo prevenire la sofferenza. Questo dolore qui e quel dolore là, certo, ma non il Dolore. Una società può alleviare soltanto la sofferenza sociale, la sofferenza innecessaria. Ma rimane il resto. La radice, la realtà. Tutti noi qui presenti conosceremo il dolore per cinquant’anni. E alla fine moriremo. Questa è la condizione a cui siamo nati. E io ho paura della vita! Ci sono dei momenti in cui io… ne ho molta paura. E la felicità sembra banale. E tuttavia mi chiedo se non sia tutto un malinteso: questo rincorrere la felicità, questa paura del dolore… Se invece di averne paura e di fuggirlo, si potesse… attraversarlo, portarsi al di là. Al di là di esso c’è qualcosa. È la nostra personalità, che soffre; e c’è un punto nel quale la personalità individuale, il «sé»… cessa. Non so come dirlo. Ma credo che la realtà… la verità che riconosco nella sofferenza e che dimentico nel benessere e nella felicità… credo che la realtà del dolore non sia un dolore. Se riuscite a superarlo. Se potete sopportarlo fino in fondo.

— La realtà della nostra vita sta nell’amore, nella solidarietà — disse la ragazza alta, dagli occhi dolci. — L’amore è la vera condizione della vita umana.

Bedap scosse il capo. — No. Shevek ha ragione — disse. — L’amore è semplicemente uno dei modi per superare il dolore, e come tale può fallire, può non avere successo. Ma il dolore non fallisce mai. Dunque, non abbiamo molta scelta sul fatto di sopportarlo o no! Lo sopportiamo, volenti o nolenti.

La ragazza dai capelli corti scosse il capo con veemenza. — No, non lo sopportiamo! Uno su cento, uno su mille compie l’intero tragitto, arriva dall’altra parte. Gli altri continuano a pretendere di essere felici, oppure, semplicemente, si rifugiano nell’ottusità. Noi soffriamo, sì, ma non abbastanza. E dunque soffriamo per niente.

— Che cosa dovremmo fare? — disse Tirin. — Batterci in testa col martello per un’ora al giorno, in modo da essere certi di soffrire abbastanza?

— State creando un culto del dolore — disse un altro. — Le mete Odoniane sono sempre positive, mai negative. La sofferenza non è funzionale, salvo che come avviso per l’organismo, contro un pericolo. Ma psicologicamente e socialmente è soltanto distruttiva.

— E allora, da che cosa sarebbe stata motivata, Odo, se non da un’eccezionale sensibilità nei riguardi della sofferenza… la sua e quella di altri? — obiettò Bedap.

— Ma tutto il principio della mutua assistenza è inteso per prevenire la sofferenza!

Shevek era seduto sul tavolo; le sue lunghe gambe dondolavano fuori del bordo, il suo viso aveva un’espressione attenta e pacata. — Avete mai visto morire qualcuno? — domandò agli altri. Molti di loro avevano già assistito alla morte, vuoi in domicilio, vuoi in servizio volontario presso un ospedale. Tutti, meno uno, avevano aiutato una volta o l’altra a seppellire i morti.

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